giovedì 20 dicembre 2012

La playlist di Zeman



La aspettavamo da un po’, alla fine è arrivata.


Dopo il rock di Osvaldo, il reggaeton di Nico Lopez e la playlist del capitano, ecco quella di mister Zeman.

Vedi mo che te tira fori er boemo dicevamo al pub tra una rimonta subita e una rimonta fatta.

Il boemo è estremo si sa, per lui il 4-3-3 non è solo un credo tattico, ma un modo di vivere. Per Zeman oltre al risultato conta – sempre – il modo in cui ci arrivi, la costruzione, la velocità, l’estetica.

Allora t’aspetti una playlist di fuoco, pensi che se ne uscirà con qualche cannonata mettallara, oppure che ti andrà a sgamare un talento del jazz in Australia o in Sud America. Lo sai già che i fenomeni Zeman se li crea in casa, non li compra al mercato; quindi figurati se tirerà fuori i Rolling Stones o i Pink Floyd.

Fomentato appizzi le orecchie in modalità offensiva 4-3-3 e vai a spizzare il nuovo sito a stelle e strisce e vedi che il primo brano è "La donna cannone". Certo non è proprio quello che t’aspettavi, però sempre meglio del capitano che ha esordito con "Su di noi" di Pupo.

Dici vabbè, De Gregori è quello di “Nino non aver paura”, quella si che è zemaniana di canzone; è quello di “non è da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”. E’ lui, è il mister in persona.

Ma allora non poteva metterci questa nella playlist?

Il problema è che c’ha il titolo lungo  tutto il pezzo e te lo sai come è fatto il mister, non gli piace parlare. Da uno che dice cinque parole al giorno e comunica in tutt’altro modo, il cantautore non te l’aspetti. Ma in qualche modo Zeman è anche questo, il non te l’aspetti per principio.

Ingoi e mandi giù, pensando che in fondo il Pescara l’anno scorso ha iniziato così così e poi ha spaccato tutto, che il meglio deve ancora venire (no non è un auspicio che se ne esca con Ligabue).

Per il momento niente heavy metal, niente jazz, niente Steve Vai.

Dici vedi mo che te tira fori er boemo, ha tirato fuori Candela, Cafu, Florenzi, Tachsidis, scommetti che c’ha orecchio pure per i giovani talenti musicali?

Vedi che er boemo te sgama subito se c’hai l’X factor.

La seconda canzone è "Streets of Philadelphia" di Bruce Sprinsteen. Si ok il Boss, ok è forte, ma di zemaniano che c’ha?

Magari la grinta, la voglia di non fermarsi nonostante l’età, però Bruce Springsteen tutto sto zemaniano non è. Casomai è più un autore che strizza l’occhio alla dirigenza americana. Born in the Usa. Ma qua stamo a Trigoria mica a Filadelfia. Stavolta sbuffi. Ancora non c’è traccia di quell’intuizione che solo lui sa, di qualche scoperta che ne parliamo tra dieci anni.

Non c’è traccia ancora del Damiano Tommasi sull’iPod del Boemo.

Traccia numero 3: "Wish you were here" dei Pink Floyd. E già se semo sbagliati perché eravamo convinti che il biscottino classic rock er boemo non te lo dava. Però ce sta. Magari da uno come lui t’aspettavi più un "The Wall", magari pure dal vivo; perché dal boemo t’aspetti uno spettacolo a tutto campo che vada oltre il risultato.


Magari i Pink Floyd, che spettacolo e risultato l’hanno sempre abbinato e in carriera fino ai tempi di Roger Waters non hanno toppato una virgola, sarebbero dovuti essere un riferimento per Zeman. Perché a dilla tutta er boemo npar de toppe l’ha prese, tipo all’Avellino o al Napoli.

Perché a esse sinceri, in vita sua Zeman non ha mai vinto manco a briscola al centro anziani de Praga.

Però in fondo "Wish you were here" è un pezzo sull’amicizia e su un gruppo d’amici; sotto sotto un po’ di Zeman c’è. 

La botta t’arriva con "Boheamian Rapsody" dei Queen, che oltre alle orchestrazioni vocali, di zemaniano c'ha ben poco. Giusto un po’ le parole dell’intro quando dice “Any way the winds blow, doesn’t really matter to me”. So Zeman e il sistema non mi sfiora. “Because i’m easy come easy go, a little high a little low”, altalenante come i risultati ma soprattutto “Is this the real life? Is this just fantasy?". Sta accadendo davvero o è tutto un sogno? Ma non vincevamo 2-0 al primo tempo e ora perdiamo 2-3?

Semioticamente ci può anche stare Bohemian Rapsody nel pantheon zemaniano ma se analizziamo il contesto vediamo che i Queen erano un gruppo già affermato, che lavorava con una major discografica (la Juve?) e che confezionavano un successo annunciato a colpo sicuro. Senza rischi di rimonte o contropiedi. Ma soprattutto, gruppo basato su un leader maximo, principe assoluto della scena, piuttosto che su un’orizzontalità musicale. No al calcio moderno, no all'impero dell'industria discografica!

Certo meglio Bohemian Rapsody che ritrovarsi in scaletta Born in the Usa. Ma il boemo dandy non regge.

Con lo scorrere delle tracce piano piano affiora l’idea che er boemo con l’iPod sia molto più Mourinho che Zeman. Il vero Zeman gli direbbe all’ iZeman che so boni tutti a fa’ le playlist con i successoni, che manco i sceicchi der Manchester City o del PSG.

Viene da pensare che c’è lo zampino di Pallotta, che per non correre rischi di vedersi scritti sulla playlist del mister i jazzisti alla Coleman, i mettallari alla Tool o qualche leggenda finita male tipo Pastorius o Hendrix ha cercato de mettece na pezza in nome de sto famoso progetto.

Poi però dirotti le bestemmie sulla traccia numero 5: "My Way" di Frank Sinatra.

Ma come? Ma Zeman non era quello contro il sistema, contro i poteri forti, quello lotta dura senza paura?
E nella playlist me ce metti un filo mafioso? Me ce metti il Moggi dello swing? Tanto valeva inserire Gigi d’Alessio, amico del pdl e dei camorristi italiani.

Anche se in parte, ancora una volta, lo salvano le liriche della canzone: “I did it my way”. Ho fatto a modo mio. Alla Zeman.



La playlist va avanti e passa per "Let it be" dei Beatles. Ancora Inghilterra, ancora major, un po’ Liverpool, un po’ Mourinho Special one.

Per noi non c’è speranza. Una batosta dietro l’altra quest’anno: oltre alla crisi, il derby, adesso anche la playlist de Zeman. E comunque una band di parrucchini me l’aspettavo più da Conte, ma lasciamo stare.

Con "No woman no cry" ti ringalluzzisci un attimo. Certo con tutti i capolavori di Bob Marley proprio questa dovevi mettere; proprio a essere banale a tutti i costi. Inoltre qualcuno dice che Bob Marley se faceva le canne e le canne so doping, e Zeman è contro er doping, quindi è incoerente. Solo che noi questi che ce provano a butta fango sul boemo li mannamo affanculo, primo perché so' della Lazio o della Juve, secondo perché ce rode e co qualcuno sa dovemo pià.

Whitney Houston e Tina Turner, poi, nemmeno stiamo qui a parlarne.

Ne manca una. Magari esce fuori il gol della bandiera: "Roma Capoccia".

Questa si commenta da sola: trovata pubblicitaria per tifosi acritici, la maggior parte. Scelta orrenda come i Ray Ban di Venditti.
Metti almeno la versione di Guzzanti, inventate una cosa per non finirla così. Peggio di Piris, peggio della dentatura random di Nico Lopez, peggio delle MS che si fuma Sabatini.

Ci puzza un po’ questa, e se stavi ancora a Napoli che mettevi 'O sole mio? Allora dillo che ce stai a pià per culo e la famo finita.

No no, ma vedi mo che te tira fori er boemo. Dicevamo.

Delusi, ci consolavamo pensando che il calcio per fortuna si gioca sui campi, non negli Ipod e nelle playlist.

E per motivarci un po' gliene dedicavamo una noi al Mister. “Bohemian like you” dei Dandy Warhols.



Perché alla fine rimonte, sconfitte, nebbie e tramonti contano poco se comunque “ we like you, yeah we like you, and we’re feeling so bohemien like you”.

Crash e Mikey Dread

martedì 11 dicembre 2012

La partita più bella dell'anno




Numeri contro emozioni. Nel precedente articolo in cui raccontavamo la stramba storia di Godfrey Chitalu, l’uomo che ha rubato il record di gol segnati in un anno solare a Messi, decomponevamo, seppur in fretta e furia, la sterile ricerca delle statistiche nel calcio.

La situazione è complessa. Quello che manca oggi è un’analisi approfondita dei numeri che nascono dal calcio. Un'analisi che serva per studiare il gioco, l’avversario, la tattica. Una procedura sistematica che stravolga le statistiche, non più finalizzate per battere record cestistici, ma che le trasformi in strumenti perfezionatori del calcio.

Qualcosa sta cambiando. Le squadre sempre più studiano numeri e percentuali per contrastare gli avversari sul campo. Sono monitorati i calci di rigore, i passaggi orizzontali del regista, il possesso palla. Quello che nel football americano, nel baseball o nel basket può sembrare un’ossessione fine a se stessa è in realtà una sostanziosa materia di studio per gli addetti ai lavori.

L’assolutismo dei numeri dei record spesso si trasferisce nel campo delle emozioni. La partita più bella della Seria A si è detto per Roma-Fiorentina di sabato scorso.

Le analisi passano in secondo piano e le emozioni diventano totalizzanti. Non più soggettive ma universali. Non più una prestazione che i tifosi romanisti aspettavano con ansia dai tempi di Roma-Juve 4-0 ma la partita più bella del campionato. Punto. Mazzone, Stramaccioni, Sacchi, Beha: tutti concordano, spinti dal raptus dell'assolutismo del giornalismo sportivo, con Sky e i grandi giornali nazionali in testa.

La partita più bella dell'anno. Chi è l'anti-Juve? Tutte pratiche giornalistiche che lasciano il tempo che trovano.

Definire Roma-Fiorentina la partita più bella dell’anno è fuorviante e non rende giustizia al campionato. Bella è stata soprattutto per i romanisti. Divertente per gli altri sportivi. Ma un’emozione non può trasformarsi in diktat.

Se intendiamo bello come perfezione formale o armonia gradevole, allora Roma-Fiorentina è letteralmente l'opposto, con le distrazioni difensive da entrambe le parti e gli errori di Viviano.



Roma-Fiorentina è di un bello che attrae, un bello non assoluto e imperfetto.

Forse in molti già dimenticano l’impresa dell’Inter a allo Juventus Stadium. Prima sconfitta dei bianconeri dopo 49 risultati positivi consecutivi. Sull’altra sponda del Tevere finora la partita più bella è stato il derby vinto dalla Lazio 3-2. Ma non tutti concorderanno. Roma-Fiorentina è stata piena di occasioni da gol, il derby ha raggiunto il massimo del pathos nel finale e la vittoria interista a Torino primeggia per il valore del successo.

Una partita divertente può risultare bella per il tifoso della squadra vincente. I romanisti sicuramente ricorderanno Roma-Inter 4-5 o Manchester Utd-Roma 7-1, ma non credo le ritengano belle.

Bello è qualcosa che piace, che ci ricorda sentimenti positivi. Per i viola la sconfitta di sabato rimane una sconfitta, e una sconfitta è dolce solo quando si traduce in passaggio del turno.

Altri hanno parlato di spot per il calcio italiano. Spesso abbiamo questa concezione negativa del nostro stivale pallonaro. Non dimentichiamoci che formazioni come la Juve e il Napoli già stanno lavorando sodo per riportare il nome delle italiane ai vertici che contano.

Lo spettacolo tra Roma-Fiorentina aiuta, ma negli altri campionati sono comunque impegnati a pensare al cortile di casa propria. Se Roma-Fiorentina è la più bella partita del nostro campionato, che figura ci facciamo noi di fronte agli spagnoli con il loro Barcellona-Deportivo 5-4 o di fronte agli inglesi con i loro Reading-Arsenal 5-7 o con il derby di domenica scorsa tra le due squadre di Manchester finito con la vittoria per 3 a 2 al novantaduesimo per lo United, grazie a un gol di Van Persie su punizione?

Il calcio del Bel Paese non ha bisogno di autocompiacimento. La strada per un futuro migliore è ancora lunga. Roma e Fiorentina sono due belle realtà che possono dare una mano al risorgimento nostrano.

Ma attenzione a confondere emozioni e risultati. Una partita bella può essere anche con pochi gol, o con un pareggio a reti inviolate. Bella tatticamente e noiosa fino alla morte.

Per i romanisti è bella la partita di domenica, per i laziali è bello il derby, per gli interisti è bella la partita contro la Juve.

La bellezza del calcio è nel gioco, nella tattica, nel sudore, nella sconfitta e nella vittoria, dipende dai punti di vista. La bellezza è in campo ogni domenica. Il gol è solo l’estasi finale. Un’estasi univoca. Per chi segna è bellezza. Per chi subisce è amarezza. Per chi è imparziale è divertimento. Bisognerebbe lasciare ad ognuno il suo bello e gli aggettivi appropriati. 

Godfrey Chitalu: l'uomo che ha rubato il record a Messi


Godfrey Chitalu e il suo record di 107 gol - Spoorts and culture

Messi ha battuto un altro record segnando 86 gol in un anno solare. Superato il precedente primato del tedesco Gert Muller.

Ma dai polverosi archivi della rete emerge una leggenda: Godfrey Chitalu. Attaccante africano che nel 1972 avrebbe segnato 107 reti.

Una storia tra la bufala e il romanticismo. La voce di Wikipedia che si riferisce a Godfrey Chitalu è stata modificata una decina di volte con statistiche surreali.

Una fantomatica pagina ufficiale dell'associazione calcistica dello Zambia sottolinea la non ufficialità del record di Godfrey Chitalu, soprannominato Ucar, dal nome di una marca di batterie. 

Social network bombardati dal passaparola dei cinguettii a 107 caratteri, soprattutto in castigliano. Calcio mediatico che gioca di contropiede. Il tifo madridista ha il suo nuovo idolo. 107 gol che schiacciano la Pulce argentina e trasformano Messi da eterno primo a sofferente secondo.

Record da fiaba, collezionato con reti mai immortalate da una telecamera. Bottino segreto di un tempo e di un luogo liberi dalla tecnologia morbosa che oggi è alla sfrenata ricerca di assist, punti fuori casa e corner casalinghi da incolonnare in tabelle avide di statistiche.

I mille colpi di tacco di Totti, i 136 passaggi riusciti di Xavi durante una sola partita, gli scudetti consecutivi di Ibra con squadre diverse. I numeri e il nostro amore per le classifiche. 

Godfrey Chitalu è altro. Portavoce di giocatori dimenticati dagli almanacchi. Capitan Passato di un esercito di diseredati. Nero marcatore di un continente abbandonato.

Quanti altri Godfrey Chitalu sono passati inosservati sul tondo mondo del calcio?

Come Friedenreich, attaccante brasiliano del primo ventennio del secolo, figlio di un tedesco e di una lavandaia nera, massimo goleador di tutti i tempi. Pelè segnò 1297 gol. Friedenreich 1329.

Storie che ricordano l'oralità di terre lontane e martoriate. Godfrey Chitalu muore in Gabon nel 1993 nella tragedia aerea che travolge tutta la nazionale di calcio dello Zambia, della quale era diventato allenatore.

Forse il record fiabesco, riemerso dai più oscuri oblii della memoria calcistica, altro non era che un tentativo di ricordare la sofferenza di una nazione e di un continente, dove le persone sono sempre più schiacciate dai numeri che contano realmente su questa terra. Quelli dell'economia.

Forse bufala della rete inviolata, la storia di Godfrey Chitalu con il suo primato, inventato o reale, riporta per una notte il calcio alla sua ancestrale magia.

I numeri intrappolano, le storie raccontano.

Messi ha conquistato il suo nuovo traguardo ufficiale, ma mai riuscirà a battere i record sconosciuti di milioni di bambini che ogni giorno giocano a pallone nelle strade, negli oratori e nei campetti.

Goleador pieni di fantasie senza statistiche, che sognano di alzare un trofeo come la Pulce o di realizzare una rete indescrivibile e misteriosa. Come un gol dei 107 di Godfrey Chitalu. Fenomeno dimenticato. Sprofondato nell'abisso dei suoi stessi grandi numeri.

giovedì 6 dicembre 2012

Finale alla portoghese


Due estati fa macinai chilometri nella penisola iberica. Dai vigneti della Rioja arrivai tra le verdi colline della Galicia, passando per le aride mesetas della Spagna centrale.

Da Santiago di Compostela sconfinai insieme alla parlata gallega verso il Portogallo, destinazione Porto. Città affascinante che già avevo visitato da cima a fondo nel 2006 nel mio viaggio iberico post-maturità. Questa volta la scusa per tornare sui miei passi era un aereo low cost che mi avrebbe riportato a casa. Sfruttai la mezza giornata portoghese in riva al fiume Douro, dove sorgono le grandi fabbriche di porto, ormai quasi tutte di proprietà inglese.

Vedendo i bambini che sognano un futuro da Cristiano Ronaldo tuffarsi dal grande ponte che unisce le due rive, spesi i miei ultimi quattro euro, sopravvissuti a trenta giorni di vacanza, comprando una birra in lattina e un panino col baccalà, pietanza tipica di queste terre. Conservando 1,45 euro per il biglietto della metro partii verso l’aeroporto.

Il trasporto cittadino non ha niente da spartire con il medioevo romano. Oltre alla fermata metropolitana per l’aeroporto, ce n'è una esclusiva per lo stadio Dragao, residenza del Futebol Clube Oporto. Squadra orgoglio della città.

Partendo dall’edificio del Se, la cattedrale, e scendendo nelle strette vie della Ribeira, che conducono fino alla riva del Douro, lo sguardo è catturato dalle atmosfere romantiche del quartiere e dalle centinaia di bandiera sui balconi delle case. Drappi rossoverdi portoghesi e biancoazzurri dell’Oporto.

Una città che vive di liquore e di calcio. Mentre aspettavo il vagone che mi avrebbe portato verso una notte insonne su una panchina dell’aeroporto, un pazzo ubriacone mi illustrò queste due passioni nazionali sintetizzandole in una scena da teatro dell’assurdo sulla banchina della metro opposta alla mia.
Con passo zigzagato e sguardo perso iniziò a urlare “Benfica é merda” “Benfica é merda” a ripetizione. La gente rideva, i poliziotti addetti al controllo sicurezza anche. Un ragazzo dal mio lato della banchina prese la palla al balzo e iniziò a chiedere ad alta voce: “Benifica claro que é merda, pero o Sporting Lisboa que é?” e l’ubriacone senza lasciare dubbi alla platea non pagante: "Merda também, o Sporting é merda!"

Iniziò così un cortometraggio di cinque minuti. Il giovane chiedeva: “O Braga?” e il profeta zuppo rispondeva “O Braga é merda”“O Bragança?”,O Bragança é merda”, “E o Setubal?” “O Setubal é merda”, “ E o Guimareis?” “ O Guimareis é merda”.

Per finire con i titoli di coda “ E Oporto que é?”; solo allora il capo popolo sulle ali dell’entusiasmo esclamò “Oporto è campeao” e iniziò a cantare “Campeao campeao”, seguito da un'ovazione dei giovani che aspettavano la metro e da un sorriso dei più anziani.
Evora -  Estate 2006 - Reperto linguistico : primi amori con l'idioma portoghese
Ritornare a Porto, anche solo per mezza giornata era stata una scelta di cuore. Il mondo di lingua portoghese aveva sempre esercitato su di me un grande fascino. La musica, nella variante brasiliana, mi aveva aperto davanti un universo, quando ancora quattordicenne scoprii gli Smoke City; un gruppo che cantava mischiando inglese e portoghese. Grazie a loro imparai la mia prima parola nella lingua lusitana: abacaxi, che significa ananas. Poi fu la volta dell'immersione sonora nella drum’n’bass brasiliana, che ancora oggi è uno dei pochi stili dell’elettronica che apprezzo. 

Con il Portogallo, in particolare, il primo contatto fu attraverso un film. Alla Rivoluzione sulla due cavalli. Storia di tre amici che partono da Parigi sulla mitica macchina Citroen e, attraversando la Spagna franchista, arrivano nel Portogallo della Rivoluzione dei garofani. Giunti pieni d’entusiasmo a Lisbona, si accodano a un gruppo di manifestanti che sventolano bandiere rosse. In realtà il corteo era composto da tifosi del Benfica diretti allo stadio.


Nell’adolescenza poi fu il momento delle letture di Tabucchi e Saramago. Degli elogi a Figo e Rui Costa. Dei cori per Fernando Couto. Io che da tifoso laziale atipico allo stadio spesso mi sentivo a disagio con molti dei cori biancocelesti. La canzone dedicata al difensore portoghese sulle note della “Famiglia Adams” era l’unica filastrocca nera che mi concedevo in curva.

Il Portogallo poi con il tempo si è allontanato dalle mie passioni. Nel calcio, dalla discesa in campo di Cristiano Ronaldo, le mie simpatie per il futbol lusitano sono crollate. Mourinho ha fatto il resto. La passione per la lingua portoghese mi si è strozzata in bocca, inerme nei confronti delle sue cugine romanze che mi hanno conquistato.

Ieri sera, dopo molto tempo, mi è tornata alla mente una parte di quell’infatuazione giovanile portoghese. Mi sono ricordato quel mantra liquoroso “Benfica è merda” guardando distrattamente la sfida di Champions League tra Barcellona e la squadra rossa di Lisbona. La partita è stata archiviata con un pareggio. La notizia più rilevante del match è stato l’infortunio di Leo Messi.

Ma al ’94 succede qualcosa che mi riporta indietro di due anni nella stazione della metro di Oporto. Sui piedi di Cardozo arriva il pallone della vita. Un minuto allo scadere. Una vittoria avrebbe regalato il passaggio del turno alla squadra di Lisbona. Il pallone della vita. Il racconto da conservare per nipoti e figli. Lo scoccare del ’95. Un finale che si potrebbe trasformare nella copia portoghese di un film hollywoodiano. Un Klose lusitano, un Aguero dell’Atlantico osannato in tutte le lingue, un Grosso in piccolo. Con tutta la letteratura che accompagna le imprese allo scadere. Una rovesciata di Pelè ad un soffio dalla Fuga per la vittoriaIl rigore parato all'ultimo infame secondo da Stallone sullo stesso campo.

Cardozo da eroe cinematografico di un film trionfante diventa la controfigura di un b-movie all’italiana. Perso in un finale trash al gusto di mortadella, come il cugino brasiliano Julio Baptista. Inciampa nella replica del peggior spaghetti western de noantri. Da postini pronti per la consegna della vita a reietti che non se devono fa più vede dalle parti di Lisbona e di Roma.


La potenza del calcio è anche questa. Lontano è il 1961 quando il Benfica riuscì a imporsi in finale di Coppa dei Campioni contro i catalani. Lontani sono i ricordi dei racconti su Eusebio. Se oggi, a sei anni di distanza da quando misi per la prima volta piede in Portogallo, mi ritrovo a parlare un buon catalano, mentre le mie conoscenze di portoghese sono ridicole, la colpa è anche degli interpreti di questo gioco.

Se fosse entrato quel pallone, poi tirato alto sopra la traversa da Maxi Pereira, forse domani avrei ripreso armi e bagagli e mi sarei rituffato con entusiasmo nella traduzione di una canzone di fado.

Ma all’ultimo secondo, capendo che gli Dei del calcio hanno scelto altre terre su cui governare, ho ripetuto in silenzio la profezia di quel pazzo visionario: “Benfica è merda!”.

giovedì 29 novembre 2012

113 anni di Barcellona


113 di Barcellona. 113 di Calcio. Da un annuncio sul giornale al tiki taka. Hans-Max Gamper è uno svizzero, capitano del Basilea. A 21 anni arriva a Barcellona e se ne innamora. Cambia il proprio nome in Joan Gamper e pubblica sul giornale “Los Deportes” una chiamata agli scarpini per chiunque voglia giocare a calcio. Rispondono in 11: destino dei numeri. Il 29 novembre 1889 fondano il Futbol Club Barcelona. Sono sei catalani, tre inglesi due svizzeri e un tedesco. Sembra una barzelletta. Diventerà leggenda.

La maglia ha gli stessi colori del Basilea di Gamper: azzurro e granata, blaugrana. L’8 dicembre di quello stesso anno il neonato Barcellona disputa la prima partita contro gli inglesi residenti in città, che vinsero per  uno a zero. 113 anni di gloriosa storia iniziati con una sconfitta. Il primo Clasico contro il Real Madrid è del 1902, semifinale di Copa del Rey, vinta dai blaugrana per 3-1.

Da quel lontano 1899 il bottino conquistato sul campo è variopinto: 21 Campionati di Liga, 26 Coppe del Re, 10 Supercoppe di Spagna, 4 Champions League ( una nel ’91 contro la Samp quando ancora si chiamava Coppa Campioni), 4 Coppe delle Coppe,  3 Coppe delle Fiere,  4 Supercoppe Uefe, 2 Mondiali per club, 2 effimere Coppe della Liga,  6 romantici Campionati di Catalunya (tra il 1905-1916) e 4 lunatiche Coppe dei Pireni (sempre tra il 1905-1916).

Trofei e record conquistati da soldati di quello che lo scrittore Montalban ha definito l’esercito senza armi della Catalogna.

Una storia di giocatori farcita di letteratura.

Paulino Alcantara, di origini filippine, debutta a 15 anni in prima squadra, si dice di lui che in una partita tra Francia e Spagna del 1922 finita 0-4 abbia spaccato la rete con un tiro di destro da fuori aerea.
Luisito Suarez, primo Pallone d’Oro del Barcellona nel 1960 e unico spagnolo ad aver vinto il prestigioso premio individuale; Di Stefano lo definiva “El Arquitecto”.
Zamora, portiere “unico”. Galeano lo dipinge così: ”Era il terrore degli attaccanti. Se lo guardavano negli occhi erano perduti: con Zamora in porta, lo specchio si rimpiccioliva e i pali si allontanavano fino a perdersi di vista. Lo chiamavano El Divino. Per vent’anni fu il miglior portiere del mondo. Gli piaceva il cognac e fumava tre pacchetti di sigarette al giorno e qualche sigaro”.
Kubala, terzo marcatore di tutti i tempi della storia del Barcellona dopo Messi e Cesar Rodriguez, il Di Stefano blaugrana; per Montalban: “Kubala ci ha insegnato a vedere il calcio come uno successione di momenti magici”; il popolare cantautore catalano Joan Manuel Serrat gli ha persino dedicato una canzone.

Samitier, raccontato ancora da Galeano:A sedici anni Samitier debuttò in prima divisione. Nel 1918 firmò con il Barcellona in cambio di un orologio col quadrante luminoso, che era una cosa mai vista, e di un vestito col panciotto (…) Samitier, attaccante dal tiro al fulmicotone, spiccava per l’astuzia, il dominio del pallone, l’assoluta mancanza di rispetto delle regole delle logica e l’olimpico disprezzo per le frontiere dello spazio e del tempo”.

Kocsis “Cabeza de Oro”, che finisce per dare nome a un criminale nel romanzo italiano “54” del collettivo italiano Wu Ming.
Il portiere Urruti e il grido di amore del telecronista Joaquim Maria Puyal, dopo un rigore parato che regala la vittoria matematica della Liga '83-'84 (Urruti t’estimo; Urruti ti amo).
Cruijff, soprannominato da Gianni Brera il Pelè biancoMaradona tra prodezze e follieGuardiola, lo slalom di Ronaldo, il reietto SchusterRivaldo e la cilena che all'ultimo minuto di un sofferto match contro il Valencia regala al Barcellona il quarto posto nella Liga e la qualificazione alla Champions League.

E poi ancora RomarioRonaldhino, l'accoglienza con buffet a base di porchetta, al Camp Nou, per il traditore FigoMessi e il suo primo contratto firmato su un fazzoletto di carta.

Partite come battaglie.

Vittorie indimenticabili: il 5-1 inflitto al Milan negli ottavi di finale di Coppa Campioni del 1959 ( tre gol di Kubala), l'uno a zero su punizione di Koeman ai tempi supplementari nella prima finale della Coppa dei Campioni vinta dal Barcellona contro la Sampdoria di Mancini e Vialli, il pareggio all'ultimo secondo di Iniesta a Stamford Bridge contro il Chelsea che regala ai blaugrana l'accesso alla finale di Champions, il 5-0 del calcio totale di Cruijff a casa del Real Madrid nel 1974, il 5-0 al Camp Nou sempre contro i rivali storici della Casa Blanca nel 1994 (questa volta con Cruijff allenatore e con un divino Romario in campo), successi storici nel Clasico, questi ultimiseguiti nell'era moderna da un 2-6 al Santiago Bernabeu e da un 5-0 al Camp Nou (la manita).

Ma anche amare sconfitte: il 3-2 a Berna nella finale di Coppa dei Campioni del '61 contro il Benfica, il 4-0 ad Atene contro un fantastico Milan di Sacchi nella finale della Coppa Campioni nel 1994, la rivincita delle merengues  al Bernabeu del 1995 che dopo averne incassati cinque la stagione precedente al Camp Nou ricambiano il regalo ( tre gol di Zamorano, uno di Luis Enrique e uno di Amavisca).

Dai tulipani al tiki taka.

Un progetto vincente che si è sviluppato; negli ultimi anni; intorno al vivaio giovanile, la cantera. Pochi giorni fa contro il Levante il Barcellona ha battuto un altro record schierando in campo 11 giocatori provenienti dal settore giovanile. Un successo di marca catalano perfezionato dale conoscenze importate dalla cultura calcistica olandese. La Masia, comprata dal club nel 1966, è trasformata in residenza per i giocatori delle giovanili solamente nel 1979. Lo zampino oranj nel decennio successivo ancora coglie i suoi frutti nelle vittorie blaugrana odierne.

Un estratto da Selvaggi e sentimentali di Javier Marias, fervente sostenitore del Real Madrid, è un simpatico esempio di come in quegli anni l’Olanda fosse di casa in Catalogna: La formazione di questo extra-club, tradizionale emblema del nazionalismo catalano recita così: Hesp (olandese), Bogarde (olandese), De Boer I (olandese), Giovanni (brasiliano), Reiziger (olandese); De Boer II (olandese), Rivaldo (brasiliano), Cocu (olandese), Zenden (olandese); Anderson (brasiliano) e Kluivert (olandese). In panchina potrebbero esserci Baia (portoghese), Pellegrino (argentino), Figo (portoghese), Amunike (nigeriano) e, se insistete, Sergi e Guardiola ( spagnoli o catalani, come preferite, non cominciate a fare storie per delle righe o delle barre, comunque rosso-gialle). Tra i titolari avremmo otto olandesi e tre brasiliani, e dei primi -la maggioranza- provenienti dallo stesso club, l’Ajax. Ci sarebbe da ricordare che da lì è venuto anche l’allenatore Van Gaal (olandese), e che il suo aiutante è Koeman (olandese). Se Cruijff fosse il presidente dell’entità forse il Barça finirebbe per giocare nella Liga dei Paesi Bassi.

Da quei semi di tulipano piantati negli anni '70 e trattati con cura nel ventennio successivo germoglierà il sistema blaugrana di calcio moderno.

Amato e odiato. Perdente e vittorioso. Romantico, spavaldo, umile, criticato e osannato. In 113 anni di storia il Barcellona è stato centro di gravità permanente della società catalana e motivo di ammirazione per appassionati di tutto il mondo. In tre parole, estrapolate dal discorso di insediamento alla presidenza di Narcis de Carreras del 1968 e immortalate sugli spalti del Camp Nou: “Més que un club”. Più di una squarda.  

giovedì 15 novembre 2012

Noi, voi e i segni della croce.


Iniziati gli sfottò dopo Lazio-Roma, noi contro voi. Ma i tifosi romanisti sono spaccati. L’esito del derby capitolino e l’ingloriosa uscita di scena di Daniele De Rossi dividono il fronte giallorosso. Le prime scissioni da tecnici da bar si erano già create rispetto alla visione calcistica dell’allenatore Zeman. Ciecamente fedeli contro detrattori disillusi da un ritorno al bel gioco che avesse portato con sé anche successi sul campo. Cittadini onorari di Zemanlandia contro “schiavi del risultato”.

Le contrapposizioni tra le varie correnti di pensiero sottolineano un fatto non scontato: nel mondo del calcio la netta divisione tra “noi” e “voi” che tanto affascina le tifoserie locali è un assioma pieno di difetti. Voi laziali siete razzisti. Voi romanisti vi lamentate troppo. Noi laziali siamo gente seria, non come voi chiacchieroni. Noi romanisti siamo più calorosi rispetto a voi laziali incoerenti.

Un gruppo eterogeneo di centinaia di migliaia di persone riassunto in un sintetico “noialtri” e “voialtri”, identificati con i colori della propria squadra, come se tifoseria, dirigenza e giocatori fossero un tutt’uno inseparabile. Mauri è implicato nel calcioscommesse? Tutti i laziali sarebbero dei furbetti. Totti prende a calcio il congiuntivo? Tutti i romanisti sarebbero degli ignoranti.

Il tifo, in realtà, è più variegato di quanto si possa credere. Estremizzando al massimo potremmo dire che in Italia l’unica realtà che riuscirebbe a permettersi questa netta presa di posizione è quella juventina. Poche sfumature di nero e bianco. I colori del pensiero degli amanti della Vecchia Signora difficilmente conoscono variazioni. Lo juventino medio, anche il più rivoluzionario, di sinistra, progressista, aperto alla riforma sociale e culturale si trasforma nel più conservatore, spietato sostenitore dello status quo, tradizionalista e becero fiancheggiatore dei poteri forti. Odia Berlusconi, Bush, il liberismo, il capitale e le multinazionali ma chiede ad alta voce il ritorno in campo di Moggi, dei guardalinee strabici e degli scudetti in bacheca.


A Roma non è così. Su entrambi i fronti calcistici le opinioni differiscono su più punti e i toni e le azioni per far valere il proprio punto di vista sono spesso molto duri. Il tifo laziale litiga sugli aspetti tecnici riguardanti Zarate, è spaccato rispetto alla figura del presidente Lotito e in passato lo era stato durante l’accoglienza nella capitale di Antonio Candreva e sulla valutazione della gestione Reja.

Sulla sponda giallorossa  del Tevere la dirigenza americana ha raccolto elogi e critiche, i giudizi su Luis Enrique navigano tra infernali condanne e rimpianti da purgatorio. La questione di Zeman è ancora più problematica perché vede scontrarsi oltre a giudizi tecnici anche fattori sentimentali.

Non che a Torino non abbiamo problemi di questa natura (il caso Del Piero ne è un esempio), ma la tifoseria juventina rimane compatta su alcuni punti chiave; vive prepotentemente la condizione di superiorità della propria squadra non accettando mai critiche esterne. Chiusi in un guscio protettivo.
Vincere aiuta. I laziali per un periodo hanno vissuto un periodo simile con Cragnotti. Criminale? Bancarottiere fraudolento? Sperperatore? Cosa importa se confeziona trofei in successione per la nostra squadra. Solo vincendo e tappandosi il naso ha senso quindi parlare di “noi” e “voi”.

Ma oggigiorno nella Capitale perdiamo e ci scanniamo. I cugini ci stanno antipatici, ma a volte le insidie si nascondono tra i nostri stessi fratelli di fede.

Il post-derby ha calmato momentaneamente le acque laziali, ma al contrario i romanisti hanno visto incrinarsi ancor di più le proprie traballanti certezze. Non bastavano gli americani, Zeman, Luis Enrique, le lamentele tecniche sulla fase difensiva, il mercato mai convincente e l’archiviato caso Totti. Ora il problema è scottante. La cortina di ferro giallorossa si sgretola. DDR è in discussione.

Dopo la sinistra espulsione del derby, i tifosi romanisti si sono spaccati nuovamente in due fazioni. Romantici: Daniele non si discute, si ama. Critici: Ha disonorato la maglia, meglio venderlo e fare soldi. Le opportunità sono finite. Entrambe però sono d’accordo su un punto: il problema di De Rossi è quello di essere troppo tifoso della maglia che veste. Un ultrà in campo.

Visione che a mio avviso andrebbe rivisitata dopo gli avvenimenti del derby. Foga, grinta, determinazione e tifo non necessariamente fanno di un giocatore un ultrà. La personalità del singolo nelle curve è messa da parte, il gruppo conta più del singolo. In caso di aiuto non si voltano le spalle ai propri compagni. Lasciare la squadra in dieci contro undici durante il derby non è colpa dell’attaccamento alla maglia ma è segno di egoismo. I romanisti condannano il gesto. In pochi comprendono le motivazioni. De Rossi si  è trasformato nel giro di pochi anni da ultrà in campo a tifoso abbonato in Monte Mario in campo.

Un giocatore che percepisce uno stipendio di 10 milioni di euro lordi a stagione (5, 5 milioni di euro netti – ma questo, ahimè, è il calcio moderno e noi tutti, chi scrive, chi tifa e chi segue il calcio, ne siamo minimamente colpevoli), che si fa il segno della croce dopo ogni azione andata a buon fine e che alla prima occasione tira fuori il peggio di sé con un pugno in faccia al capitano avversario, nella partita più importante dell’anno solare capitolino, ricorda più che un ultrà da curva, uno di quei distinti signorotti che spesso affollano la tribuna Monte Mario, senza distinzione di colore, di buona estrazione sociale, ben vestiti e pronti a baciarsi le mani a vicenda, che alla prima occasione buona inveiscono e bestemmiano per un gol mancato della propria squadra. Personaggi che finita la partita prendono il Suv e tornano ai loro sporchi affari.

Se ne saranno accorti in curva? I segni della croce lasciamoli in Vaticano. Un noi romanisti non esisterà mai, malgrado striscioni, cori e slogan. I gufi laziali gongolano. Ma il dna famigliare è lo stesso. Un noi contrapposto al voi romanista non è credibile. Troppe saranno ancora le occasioni per potersi dividere: giocatori, allenatore, presidente. Modi differenti di vivere il calcio.


Il noi e voi in terra capitolina è un feticcio. Un gioco di parole. Uno sfogo liberatorio ma irreale.

Cinque candidati non basterebbero in ipotetiche primarie giallorosse o biancocelesti per decretare un pensiero vincente. Per delineare un noi e un voi. Troppi tifosi entrerebbero nelle urne facendosi il segno della croce mentre altri uscirebbero bestemmiando contro i loro compagni. A Torino, al contrario, il candidato sarebbe sempre uno solo, con un motto di partito preso a prestito dal marchese De Rossi : “Mi dispiace ma noi siamo noi e voi non siete un cazzo!”. 

lunedì 29 ottobre 2012

Tecnologia in campo


Spoorts and culture - Tecnologia nel calcio e cerbottane.

Innovazioni sul campo, sistemi complessi per calcolare gli assist e vecchie discussioni.


La terna arbitrale del futuro

- Da un computer di casa il tifoso controlla la situazione del traffico cittadino e calcola il tempo di percorrenza effettivo fino allo stadio. Il calciatore in trasferta chiama tramite Skype, sul proprio cellulare, la moglie a casa con i figli. Il fantasista manda un messaggio via Twitter ai propri tifosi, quindici minuti prima di scendere in campo. Le telecamere entrano nello spogliatoio per scrutare pensieri, tatuaggi e sorrisi dei giocatori delle due formazioni. All’ingresso dello stadio i tornelli elettronici controllano che il codice di ogni biglietto sia in regola. L’allenatore diffidato dispensa consigli telepatici con cellulari e altri marchingegni. Le squadre sono pronte; per settimane hanno studiato l’avversario grazie ai più sofisticati sistemi tecnologici sul mercato.

Maggiani durante Catania-Juve
Dentro il campo un fischio. Black out. L’arbitro per valutare la distanza della barriera fa dei saltelli scomposti. Il guardalinee si consulta con i propri santi in paradiso. Il quarto uomo dà il recupero contando mentalmente gli angoli, i rigori, gli infortuni e le sostituzioni. Nel calcio se un tifoso fa irruzione interrompendo la partita per dieci minuti il cronometro non si ferma. L’arbitro concederà dieci minuti di recupero. Schiere di uomini nel mondo esterno fanno l’amore con la tecnologia. Il calcio si arbitra con le cerbottane. 

- La tecnologia che molti sognano esiste già. Nel mondiale sudafricano del 2010 l’arbitro di Germania-Inghilterra annulla un gol regolare di Lampard. Nello stesso istante i maxischermi dello stadio ripropongono il replay dell’azione. Le proteste del pubblico sono rumorose quanto giustificate. Lo stesso accade per una rete convalidata a Tevez contro il Messico. Il direttore di gara, l’italiano Rosetti è a disagio dopo aver visto di sfuggita, sui teleschermi dell’impianto, che l’argentino era partito da posizione di fuorigioco.

- In Italia non ci sono maxischermi per il replay. Il risultato però non cambia. Quando la terna arbitrale di Catania-Juve inscena una riunione per decidere se annullare o no la rete di Bergessio, da casa gli spettatori hanno già visto con largo anticipo la regolarità dell'azione. Errore di valutazione e perdita di tempo quindi. 

- La questione appare complessa. Microchip, spie, triangolazioni, replay, controlli imparziali e investimenti. Si dovrebbe partire dalla semplicità iniziando ad utilizzare un ausilio tecnologico nelle situazioni in cui il gioco è fermo. Nei gol di El Shaarawy, Bergessio, Mauri e Vidal sarebbero bastati cinque secondi per valutare l’accaduto. Un periodo di tempo minore rispetto a quello impiegato per le proteste.

- Il calcio non è il tennis, il football americano o il basket, ma un aggiornamento al passo con i tempi gioverebbe al sistema intero. Occhi di falchi contro miopia.

- Anni fa le sostituzioni non esistevano, il portiere poteva prendere il pallone con le mani dopo un passaggio indietro di un proprio compagno, le partite di coppa se si pareggiavano si rigiocavano ( come accade ancora in Fa Cup), non esistevano rigori al termine del match. A volte è successo che un passaggio del turno si giocasse con il lancio della monetina.


- Il calcio è un gioco dinamico, il cambiamento fa parte della sopravvivenza di ogni sport. Rugby e pallavolo non sono più quelli di trent’anni fa. Il calcio di domani non potrà essere il calcio di oggi.

- In parrocchia non avevamo di questi problemi arbitrali. Ogni tanto si finiva in rissa. Ma all’oratorio c’era in gioco “solo” l’orgoglio. Se parliamo di qualificazioni milionarie a competizioni europee per club o ai tanto desiderati mondiali, se sono in palio assegnazioni di scudetti o retrocessioni allora ogni errore arbitrale rappresenta un risultato falsato di un sistema ricchissimo di selezione, preso da tutti sul serio. Un minimo errore ci sarà sempre. La perfezione non esiste. Ma qualcuno potrebbe provare almeno a superare l'attuale situazione stagnante di mediocrità.

- Un mio amico, appena tornato dall’Olimpico, ancora ubriaco dal sali e scendi boemo, mi incrocia  dubitoso, prima di andare a letto a prenderne altri tre nel sonno: “C’era il rigore per l’Udinese? Il fuorigioco di Domizzi?”. Nella Nfl americana l’arbitro con un microfono collegato agli altoparlanti dello stadio spiega le decisioni più critiche agli spettatori. Nel calcio siamo al medioevo.

- Il pasticcio di Catania ha anche i suoi risvolti ecumenici negativi. L’evangelico Legrottaglie è una furia. Chissà se anche Dio è favorevole all’introduzione della tecnologia in campo? Aspettiamo parabole da 140 caratteri scolpite sulle tavole di Twitter.

- Dalla rabbia cristiana ai ringraziamenti musulmani. Ljajic, dopo uno splendido gol contro la Lazio, mostra una maglietta con la scritta :”Bajram mubarek olsun”. Forma bosniaca, adattata dal turco, per augurare una buona Festa del Sacrificio alla comunità islamica.

- Della Valle nell’infinità polemica con Agnelli reclama la vittoria del campionato del’82, dimenticandosi di quanto avvenuto poche ore prima al Franchi, con una buona Fiorentina sul campo aiutata dalle dubbie decisioni della terna arbitrale.

- Inizia la sagra dei reclami dei campionati passati. Armarsi di bianchetto e inchiostro. Un amarcord di qualche anno fa...


- Le polemiche di questa giornata arrivano anche oltre Manica. Nella Premier League il Chelsea perde 2-3, rimasto in nove uomini, contro il Manchester Utd. Gol decisivo di Chicharito Hernandez in fuorigioco. Adesso le due di Manchester sono ad un punto dalla franchigia di Abramovic.

- Gli umori sono calmi in Spagna. In assenza di classici in vista e annesse conferenze stampa di fuoco. Barcellona e Real Madrid si rendono protagoniste entrambe di schiaccianti manitas; ai danni rispettivamente del Rayo Vallecano e del Mallorca. L’Atletico di Simeone non cede il passo e conduce la Liga con 25 punti in compagnia dei blaugrana di Vilanova. Da quando allena i colchoneros l’ex giocatore di Inter e Lazio ha collezionato in 43 partite: 30 vittorie, 8 pareggi e 5 sconfitte.

- Messi con lo schiaffo a mano aperta del Barcellona al Rayo raggiunge il record di 301 gol segnati con la stessa maglia. Mai nessuno come lui con la squadra catalana. Cesar Rodriguez è il secondo di sempre con 232 sigilli, seguono Kubala con 194 e quarti a pari merito Eto’o e Rivaldo a quota 130.

- Fabregas conduce la stravagante classifica degli assist a livello europeo con 9 suggerimenti finalizzati a rete. Seguono: Müller 8, Di Maria, Mata, Hustzi 7, Benzema, Hazard, Rooney, Messi 6. Gli italiani lontani a 4: Totti, Asamoah, Hamsik e Cerci . 


- Chissà se la Fifa lascia utilizzare per le statistiche internazionali sistemi tecnologici di controllo o, seguendo la tradizione medievalista dei novanta minuti sul campo, calcolerà gli assist grazie all’ausilio di un infallibile pallottoliere.

giovedì 25 ottobre 2012

La tragedia del Luzhniki

Spoorts and Culture- La tragedia del Luzhniki


Mosca 20 ottobre 1982 - Un disastro dimenticato, riemerso dall'oblio solo dopo il crollo dell'Urss.

Allo stadio Lenin, ora Luzhniki, si giocano i sedicesimi di finale di Coppa Uefa. A fronteggiare la squadra di casa, il mitico Spartak di Mosca, c’è l’Haarlem, modesta compagine olandese, orfana del talentuoso ventenne Ruud Gullit, appena trasferitosi alla corte del Feyenoord. 



Negli ultimi due anni il calcio sovietico si difende piuttosto bene: alle Olimpiadi di Mosca del 1980 la nazionale si classifica terza e ai Mondiali del 1982, guidata dai gol del bomber ucraino Oleh Blochin, riesce a superare il primo turno nel girone del Brasile. Solo la differenza reti le impedisce di approdare in semifinale al posto della Polonia di Boniek.

Sul campo politico invece, lo Stato sovietico si avvia ansimante verso lo scadere dei tempi supplementari, la sua fase terminale. La guerra in Afghanistan, giunta al terzo anno, sta lentamente diventando il Vietnam dell’URSS e una brutta malattia logora il vecchio leader Leonid Brežnev, settantasette primavere, al potere da diciotto inverni, a cui va aggiunta la destabilizzante incognita sulla sua prossima successione.

A peggiorare la situazione, un nuovo inasprimento delle relazioni con gli Stati Uniti. Da due anni, nello studio cinematografico della Casa Bianca, siede un presidente ex attore di Hollywood, con una particolare passione per l’Antico Testamento. La glasnost, la politica di trasparenza voluta da Gorbaciov, è ancora lontana. Della tragedia del Luzhniki, per anni, nessuno seppe niente. 

Una partita come tante che si trasforma in uno dei maggiori disastri della storia del calcio. A Mosca poche migliaia di persone, forse 15 mila, sfidano il Generale Inverno e vanno allo stadio. 

La maggior parte viene fatta sistemare su una sola tribuna, probabilmente perché è l’unica in cui la neve è stata spazzata. Al 16° del primo tempo un gol del modesto Edgar Gees porta in vantaggio i padroni di casa, poi fino all’85° nulla. I troppi gradi sotto lo zero congelano la partita e molti spettatori decidono di tornare a casa prima della fine. Mentre la gente sfolla, Sergej Aleksandrovič Švecov, difensore dello Spartak, segna il gol del  2-0. Con la polizia colta di sorpresa, molti tentano di rientrare; è il panico. Da lì un buco nero, si passa dall’agitazione ai morti; non c’è una dinamica chiara, un responsabile, un cedimento. Niente. 


Non esistono numeri ufficiali: alcuni dicono 66 morti, altri 134, 340, 350. Tanti dubbi sul tragico sviluppo: c’è chi parla di un crollo della scalinata a causa di uno schiacciamento dei tifosi e chi racconta di scontri con la polizia. 

Il giorno dopo a Mosca nessuno sa nulla: la trasparenza non è certo il forte di un regime come quello sovietico. Un giornale parla brevemente del crollo di una scala allo stadio e di alcuni morti. Nessuna inchiesta ufficiale, tranne una messa in scena che vede come unico imputato il custode dello stadio, uno Yuri qualsiasi, condannato a diciotto mesi di lavori forzati. Per anni, la tragedia è insabbiata. Per un lungo periodo le porte dello stadio rimangono chiuse per evitare imbarazzanti commemorazioni. 

La storia viene dimenticata fino al 1989, quando ormai l’esistenza dell’Urss è vicina al triplice fischio: la glasnost ha ormai preso il posto della politica dei segreti di Stato, e catastrofi anche maggiori, come quella di Černobyl', sono rese pubbliche. Il 18 aprile 1989 un settimanale sovietico pubblica un elenco di tragedie negli stadi, includendo quella del Luhzniki. Appena tre giorni prima, allo stadio Hillsborough di Sheffield, novantasei tifosi del Liverpool morirono in un’altra ressa durante la semifinale della Coppa d’Inghilterra tra Liverpool e Nottingham Forest.

La partita tra Spartak e Haarlem, quel giorno, continuò lo stesso. Lo Spartak Mosca passò il turno grazie al tragico 2-0 e all’ 1-3 del ritorno in Olanda, ma venne eliminato agli ottavi dal Valencia. La Coppa Uefa andò all’Anderlecht, che sconfisse il Benfica nella doppia finale. 


Lion e Mikey Dread

venerdì 19 ottobre 2012

Il taccuino di Mario: appunti n°3


1- Cassano non ha ricevuto la non convocazione in nazionale. Neanche io.


2 - De Rossi escluso da Zeman, in nazionale segna due gol. Osvaldo escluso da Zeman, in nazionale segna un gol. Profumo d'azzurro per Perrotta.

3 - Felix Baumgartner compie l'impresa di lanciarsi da 39.000 metri, infrangere il muro del suono. RedBull ti toglie le ali.

4- Balotelli: "Sarò un buon padre". Se arriva a sei anni con quei due genitori, lo faccio anch'io un figlio.

5 - Kjiaer: "Se la Roma vuole sono sempre pronto a tornare". Simon, mangia tranquillo. 

6 - Juve-Napoli, prevista invasione di napoletani nelle strade di Torino. Sono i cassaintegrati FIAT.

7 - Allegri non ha paura di perdere il posto. Nessuno prenderebbe mai il suo posto.


Mario Savina


Nota aggiuntiva del redattore:

(I 3 punti che mancano ai canonici 10 rappresentano, in una visione filosofica da pippa mentale,  la mancanza del campionato, in una settimana sportiva che, in assenza del suo principale attore, perde il proprio significato biblico. La nazionale guadagna il palcoscenico ma in realtà è solamente un contorno alle beghe delle Seria A. Senza campionato anche uno sconosciuto come Felix Baumgartner riceve un po' d'attenzione. In una domenica calcistica normale, il record di infrangere la velocità del suono sarebbe stato oscurato dall'effetto di una "maledetta" di Pirlo, dalle cadute libere del Milan di Allegri e dai calcoli astronomici di differenze reti in testa alla classifica...Per fortuna le particelle delle Serie A torneranno a scontrarsi a breve....)  

sabato 13 ottobre 2012

Il Manifesto



Il paesaggio sembrava un po' diverso dal nostro. In sequenze di palazzoni tutti uguali vivevano uomini che passavano il tempo davanti alla TV.

In TV si guardava il calcio.

Nel paese della Caffettiera le mogli preparavano i caffè ai mariti davanti alla TV; qualcuno lo zuccherava, qualcuno lo borghettava, altri lo assumevano amaro per prepararsi alle emozioni pomeridiane come fosse un vaccino.
I figli delle donne con la caffettiera e degli uomini davanti alla TV giocavano a calcio nel parcheggio sotto il palazzone che confinava col centro commerciale.


Erano divisi in due squadre:
I sotto, quelli che abitavano dal primo al tredicesimo piano, bravi nel gioco a terra, tecnici, intelligenti e poco muscolosi a causa dei pochi piani di scale che affrontavano quotidianamente.
I sopra, dal quattordicesimo al ventiseiesimo piano, sprovvisti di ascensore. Tosti, massicci, forti nel gioco aereo. Tanto cuore e poco piede.
La leggenda vuole che i sopra siano gli inventori del catenaccio, dal nome della particolare chiusura che adottavano per le finestre per non essere derubati dai paracadutisti della zona.

Chi non era in grado di giocare tifava.

I tifosi dei sotto erano soliti seguire la partita dal giardino, con sciarpe colorate dedicate ai loro calciatori più rappresentativi, e inneggiavano alle loro gesta con cori polifonici molto ben armonizzati, aiutati da qualche bicchiere di vino. I supporters dei sopra, invece, preferivano partecipare denudandosi dall'ombelico in su, sostenendo i loro idoli dal terrazzo con rullanti, tamburi e altri strumenti da banda balcanica, ebbri di birra.

Nel parcheggio del palazzo del paese della Caffettiera le partite scorrevano, le gambe correvano, le ginocchia si sbucciavano e i nostri sbocciavano, facendosi ometti. Arrivarono i primi forfait per motorini, ragazze o eccesso di pippe prepartita. Qualcuno fumava, qualcuno passava ai computer e alla Gamestation, mentre qualcun altro addirittura leggeva.
Nell'ala sinistra del grande palazzone della Caffettiera, detta il manico, il giovane Carlo si appassionava a Stefano Benni, alla “Compagnia dei Celestini” e alla pallastrada.


Quanta differenza c'era tra il calcio del parcheggio e quello dei loro genitori in TV?

Carlo fece amicizia con altri coetanei appassionati, che venivano dal paese della Lavastoviglie e della Domenica a pranzo.

Parlarono, agitarono, animarono; e scrissero.

Appunti un po' illuminati un po' confusi su quello che sarebbe dovuto essere, sul presagio di un terremoto che avrebbe portato l'intero arcipelago dei paesi Chiusi in casa a cambiare le cose.
Appunti scritti sul retro dell'album delle figurine.

Tutti insieme, dai catenacciari del diciottesimo piano agli smilzi del quinto, dai fabbri della squadra di sopra agli impiegati della sotto, pregustavano il tempo della rivoluzione del calcio, in cui i poveri, i dimenticati, i bambini avrebbero preso a pallonate i padroni del palazzo e le loro tv.
Proprio per questo, dal primo all'ultimo piano, dal paese della Domenica a pranzo al paese della Lavastoviglie, pennarello in mano si riunirono nello scantinato del palazzo della Caffettiera, e stesero per filo e per segno la nuova grammatica del calcio.
Sarebbe stata pubblicata in inglese, francese, tedesco, italiano, fiammingo e danese.

"Come lo chiamiamo Carlo, il poster del calcio?"
"Meglio il manifesto della partita comunista!"

Punto 1 - Il Calcio è divertimento. 

Punto 2 - Il Calcio è un gioco della gente per la gente.

Punto 3 - Davanti ad un pallone tutte le persone sono uguali.


Punto 4 - Il gol è l’estasi del Calcio.


Punto 5 - Il gol del Portiere vale doppio.


Punto 6 - L’esultanza dopo un gol non ha una durata specifica. Il tutto è a scapito del marcatore.


Punto 7 - Dopo il gol si possono mostrare magliette e scritte, purché non siano offensive nei confronti di terzi.
Punto 7 comma 1 – Scritte offensive è diverso da “sberleffi”.


Punto 8 - Sono aboliti tutti gli sponsor sulle maglie da gioco e a bordo campo.


Punto 9 - Il Calcio può essere giocato in qualsiasi luogo: prato, marciapiede, spiaggia, cortile camera da letto e stadio.


Punto 10 - Il 10 è proprietà esclusiva di Diego Armando Maradona, rivoluzionario del Calcio, quindi non esiste un punto con questo numero.


Punto 11 - Ogni sasso, roccia, zaino, bottiglia, albero può formare i pali della porta.

Punto 11 comma 1 - Nel caso non ci fossero oggetti disponibili per limitare la porta (ad esempio con porta posizionata in mare) si può giocare anche con distanze immaginarie, precedentemente accordate dalle diversi parti in gioco.
Punto 11 comma 2 - Nei casi descritti al Punto 11 comma 1, per evitare ogni dubbio, si consiglia vivamente la distanza di quattro ampi passi per delimitare i pali e un salto con braccio teso per delimitare la traversa.


Punto 12 - Ogni sasso, bottiglia, pigna o cartone ha il diritto di essere calciato.


Punto 13 – Il risultato di pareggio non è abolito per pura praticità, ma è fortemente ripudiato.

Punto 13 comma 1 – Fanno eccezione le partite con più di tre gol per squadra ed occasionalmente le partite a reti inviolate, ma con annessa sagra di pali e traverse.

Punto 14 - E’ abolita la figura dell’arbitro. I giocatori delle due squadre prendono le decisioni di comune accordo.


Punto 15 – Sono interdetti dallo svolgere il ruolo di presidente di un club tutti i petrolieri, politici, usurai, sfruttatori, direttori d’azienda, monopolisti, banchieri, monarchi, proprietari di televisioni, affaristi, ladri di stato e il clero.

Punto 15 comma 2 - Della categoria dei ladri di stato non fanno parte i pirati, che possono svolgere l’attività di presidente regolarmente.
Punto 15 comma 3 - Fanno eccezione nel clero le suore, che possono svolgere l’attività di presidente regolarmente.


Punto 16 - I diritti televisivi sono proprietà del pubblico. Tutti hanno il diritto di vedere una partita di Calcio senza alcuna distinzione di tifo e maglia.


Punto 17 - Sono aboliti i nomi dietro le maglie.


Punto 18 - Sono abolite tutte le divisioni tra i diversi settori di uno stadio.

Punto 19 - Al termine della carriera ogni calciatore deve impegnarsi per almeno 15 anni in attività di supporto al calcio giovanile. Solo dopo questo periodo si ha diritto al pensionamento.


Punto 20 - Sono abolite le classiche interviste post-partita. Fanno eccezione le interviste riguardanti gusti musicali, abitudini culinarie e aneddoti d’infanzia.


Punto 21 -  A fine primo tempo si possono prendere tè caldi, birre o caffè corretti.


Punto 22 - Le relazioni coniugali di un giocatore sono interesse suo personale.


Punto 23 - Il fuorigioco va interpretato secondo le varie scuole di pensiero neoplatoniche e marxiste.


Punto 24 - E’ vietato l’uso di Ipod negli spogliatoi e sugli autobus.

Punto 24 comma 2 - E’ vivamente consigliata una partita di scopone scientifico.

Punto 25 - Chi vince offre da bere a chi perde.



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Qualche anno dopo il paesaggio sembrava solo un po' diverso dal nostro. In sequenze di palazzoni tutti uguali vivevano uomini e donne che passavano il tempo davanti alla TV. Gli uomini guardavano il calcio, e anche i loro figli.
Nel parcheggio silenzioso le luci erano spente.

Da quando l'emittente televisiva Sea aveva acquistato i diritti di numerosi parcheggi, prati e spiagge del paese della Caffettiera, durante gli orari delle partite in televisione, che ormai occupavano il 70% del palinsesto, vigeva un severo coprifuoco sportivo. Pigne sassi lattine e palloni giacevano quiescenti in attesa di calci e ginocchia sbucciate.


Pochi temerari ricordavano le gesta dei sopra e dei sotto, e le celebravano in tornei clandestini in scantinati, fabbriche abbandonate e boschi inaccessibili. Sognavano un calcio diverso e pregustavano il tempo della rivoluzione, in cui i poveri, i dimenticati, i bambini avrebbero preso a pallonate i padroni del palazzo e le loro TV. Almeno finché qualcuno non avrebbe acquistato anche i loro diritti d'immagine.


Mikey Dread


I punti del Manifesto sono stati pubblicati due anni fa da Ciava su Rimediabile, sito di informazione alternativa ormai fuori rete. Sono stati revisionati per questa pubblicazione e sono state aggiunte le due parti narrative del prologo e del finale tramite un lavoro di scrittura collettiva a firma Mikey Dread ( Ciava, Crescio, Pizzi e Leone).