giovedì 20 dicembre 2012

La playlist di Zeman



La aspettavamo da un po’, alla fine è arrivata.


Dopo il rock di Osvaldo, il reggaeton di Nico Lopez e la playlist del capitano, ecco quella di mister Zeman.

Vedi mo che te tira fori er boemo dicevamo al pub tra una rimonta subita e una rimonta fatta.

Il boemo è estremo si sa, per lui il 4-3-3 non è solo un credo tattico, ma un modo di vivere. Per Zeman oltre al risultato conta – sempre – il modo in cui ci arrivi, la costruzione, la velocità, l’estetica.

Allora t’aspetti una playlist di fuoco, pensi che se ne uscirà con qualche cannonata mettallara, oppure che ti andrà a sgamare un talento del jazz in Australia o in Sud America. Lo sai già che i fenomeni Zeman se li crea in casa, non li compra al mercato; quindi figurati se tirerà fuori i Rolling Stones o i Pink Floyd.

Fomentato appizzi le orecchie in modalità offensiva 4-3-3 e vai a spizzare il nuovo sito a stelle e strisce e vedi che il primo brano è "La donna cannone". Certo non è proprio quello che t’aspettavi, però sempre meglio del capitano che ha esordito con "Su di noi" di Pupo.

Dici vabbè, De Gregori è quello di “Nino non aver paura”, quella si che è zemaniana di canzone; è quello di “non è da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”. E’ lui, è il mister in persona.

Ma allora non poteva metterci questa nella playlist?

Il problema è che c’ha il titolo lungo  tutto il pezzo e te lo sai come è fatto il mister, non gli piace parlare. Da uno che dice cinque parole al giorno e comunica in tutt’altro modo, il cantautore non te l’aspetti. Ma in qualche modo Zeman è anche questo, il non te l’aspetti per principio.

Ingoi e mandi giù, pensando che in fondo il Pescara l’anno scorso ha iniziato così così e poi ha spaccato tutto, che il meglio deve ancora venire (no non è un auspicio che se ne esca con Ligabue).

Per il momento niente heavy metal, niente jazz, niente Steve Vai.

Dici vedi mo che te tira fori er boemo, ha tirato fuori Candela, Cafu, Florenzi, Tachsidis, scommetti che c’ha orecchio pure per i giovani talenti musicali?

Vedi che er boemo te sgama subito se c’hai l’X factor.

La seconda canzone è "Streets of Philadelphia" di Bruce Sprinsteen. Si ok il Boss, ok è forte, ma di zemaniano che c’ha?

Magari la grinta, la voglia di non fermarsi nonostante l’età, però Bruce Springsteen tutto sto zemaniano non è. Casomai è più un autore che strizza l’occhio alla dirigenza americana. Born in the Usa. Ma qua stamo a Trigoria mica a Filadelfia. Stavolta sbuffi. Ancora non c’è traccia di quell’intuizione che solo lui sa, di qualche scoperta che ne parliamo tra dieci anni.

Non c’è traccia ancora del Damiano Tommasi sull’iPod del Boemo.

Traccia numero 3: "Wish you were here" dei Pink Floyd. E già se semo sbagliati perché eravamo convinti che il biscottino classic rock er boemo non te lo dava. Però ce sta. Magari da uno come lui t’aspettavi più un "The Wall", magari pure dal vivo; perché dal boemo t’aspetti uno spettacolo a tutto campo che vada oltre il risultato.


Magari i Pink Floyd, che spettacolo e risultato l’hanno sempre abbinato e in carriera fino ai tempi di Roger Waters non hanno toppato una virgola, sarebbero dovuti essere un riferimento per Zeman. Perché a dilla tutta er boemo npar de toppe l’ha prese, tipo all’Avellino o al Napoli.

Perché a esse sinceri, in vita sua Zeman non ha mai vinto manco a briscola al centro anziani de Praga.

Però in fondo "Wish you were here" è un pezzo sull’amicizia e su un gruppo d’amici; sotto sotto un po’ di Zeman c’è. 

La botta t’arriva con "Boheamian Rapsody" dei Queen, che oltre alle orchestrazioni vocali, di zemaniano c'ha ben poco. Giusto un po’ le parole dell’intro quando dice “Any way the winds blow, doesn’t really matter to me”. So Zeman e il sistema non mi sfiora. “Because i’m easy come easy go, a little high a little low”, altalenante come i risultati ma soprattutto “Is this the real life? Is this just fantasy?". Sta accadendo davvero o è tutto un sogno? Ma non vincevamo 2-0 al primo tempo e ora perdiamo 2-3?

Semioticamente ci può anche stare Bohemian Rapsody nel pantheon zemaniano ma se analizziamo il contesto vediamo che i Queen erano un gruppo già affermato, che lavorava con una major discografica (la Juve?) e che confezionavano un successo annunciato a colpo sicuro. Senza rischi di rimonte o contropiedi. Ma soprattutto, gruppo basato su un leader maximo, principe assoluto della scena, piuttosto che su un’orizzontalità musicale. No al calcio moderno, no all'impero dell'industria discografica!

Certo meglio Bohemian Rapsody che ritrovarsi in scaletta Born in the Usa. Ma il boemo dandy non regge.

Con lo scorrere delle tracce piano piano affiora l’idea che er boemo con l’iPod sia molto più Mourinho che Zeman. Il vero Zeman gli direbbe all’ iZeman che so boni tutti a fa’ le playlist con i successoni, che manco i sceicchi der Manchester City o del PSG.

Viene da pensare che c’è lo zampino di Pallotta, che per non correre rischi di vedersi scritti sulla playlist del mister i jazzisti alla Coleman, i mettallari alla Tool o qualche leggenda finita male tipo Pastorius o Hendrix ha cercato de mettece na pezza in nome de sto famoso progetto.

Poi però dirotti le bestemmie sulla traccia numero 5: "My Way" di Frank Sinatra.

Ma come? Ma Zeman non era quello contro il sistema, contro i poteri forti, quello lotta dura senza paura?
E nella playlist me ce metti un filo mafioso? Me ce metti il Moggi dello swing? Tanto valeva inserire Gigi d’Alessio, amico del pdl e dei camorristi italiani.

Anche se in parte, ancora una volta, lo salvano le liriche della canzone: “I did it my way”. Ho fatto a modo mio. Alla Zeman.



La playlist va avanti e passa per "Let it be" dei Beatles. Ancora Inghilterra, ancora major, un po’ Liverpool, un po’ Mourinho Special one.

Per noi non c’è speranza. Una batosta dietro l’altra quest’anno: oltre alla crisi, il derby, adesso anche la playlist de Zeman. E comunque una band di parrucchini me l’aspettavo più da Conte, ma lasciamo stare.

Con "No woman no cry" ti ringalluzzisci un attimo. Certo con tutti i capolavori di Bob Marley proprio questa dovevi mettere; proprio a essere banale a tutti i costi. Inoltre qualcuno dice che Bob Marley se faceva le canne e le canne so doping, e Zeman è contro er doping, quindi è incoerente. Solo che noi questi che ce provano a butta fango sul boemo li mannamo affanculo, primo perché so' della Lazio o della Juve, secondo perché ce rode e co qualcuno sa dovemo pià.

Whitney Houston e Tina Turner, poi, nemmeno stiamo qui a parlarne.

Ne manca una. Magari esce fuori il gol della bandiera: "Roma Capoccia".

Questa si commenta da sola: trovata pubblicitaria per tifosi acritici, la maggior parte. Scelta orrenda come i Ray Ban di Venditti.
Metti almeno la versione di Guzzanti, inventate una cosa per non finirla così. Peggio di Piris, peggio della dentatura random di Nico Lopez, peggio delle MS che si fuma Sabatini.

Ci puzza un po’ questa, e se stavi ancora a Napoli che mettevi 'O sole mio? Allora dillo che ce stai a pià per culo e la famo finita.

No no, ma vedi mo che te tira fori er boemo. Dicevamo.

Delusi, ci consolavamo pensando che il calcio per fortuna si gioca sui campi, non negli Ipod e nelle playlist.

E per motivarci un po' gliene dedicavamo una noi al Mister. “Bohemian like you” dei Dandy Warhols.



Perché alla fine rimonte, sconfitte, nebbie e tramonti contano poco se comunque “ we like you, yeah we like you, and we’re feeling so bohemien like you”.

Crash e Mikey Dread

martedì 11 dicembre 2012

La partita più bella dell'anno




Numeri contro emozioni. Nel precedente articolo in cui raccontavamo la stramba storia di Godfrey Chitalu, l’uomo che ha rubato il record di gol segnati in un anno solare a Messi, decomponevamo, seppur in fretta e furia, la sterile ricerca delle statistiche nel calcio.

La situazione è complessa. Quello che manca oggi è un’analisi approfondita dei numeri che nascono dal calcio. Un'analisi che serva per studiare il gioco, l’avversario, la tattica. Una procedura sistematica che stravolga le statistiche, non più finalizzate per battere record cestistici, ma che le trasformi in strumenti perfezionatori del calcio.

Qualcosa sta cambiando. Le squadre sempre più studiano numeri e percentuali per contrastare gli avversari sul campo. Sono monitorati i calci di rigore, i passaggi orizzontali del regista, il possesso palla. Quello che nel football americano, nel baseball o nel basket può sembrare un’ossessione fine a se stessa è in realtà una sostanziosa materia di studio per gli addetti ai lavori.

L’assolutismo dei numeri dei record spesso si trasferisce nel campo delle emozioni. La partita più bella della Seria A si è detto per Roma-Fiorentina di sabato scorso.

Le analisi passano in secondo piano e le emozioni diventano totalizzanti. Non più soggettive ma universali. Non più una prestazione che i tifosi romanisti aspettavano con ansia dai tempi di Roma-Juve 4-0 ma la partita più bella del campionato. Punto. Mazzone, Stramaccioni, Sacchi, Beha: tutti concordano, spinti dal raptus dell'assolutismo del giornalismo sportivo, con Sky e i grandi giornali nazionali in testa.

La partita più bella dell'anno. Chi è l'anti-Juve? Tutte pratiche giornalistiche che lasciano il tempo che trovano.

Definire Roma-Fiorentina la partita più bella dell’anno è fuorviante e non rende giustizia al campionato. Bella è stata soprattutto per i romanisti. Divertente per gli altri sportivi. Ma un’emozione non può trasformarsi in diktat.

Se intendiamo bello come perfezione formale o armonia gradevole, allora Roma-Fiorentina è letteralmente l'opposto, con le distrazioni difensive da entrambe le parti e gli errori di Viviano.



Roma-Fiorentina è di un bello che attrae, un bello non assoluto e imperfetto.

Forse in molti già dimenticano l’impresa dell’Inter a allo Juventus Stadium. Prima sconfitta dei bianconeri dopo 49 risultati positivi consecutivi. Sull’altra sponda del Tevere finora la partita più bella è stato il derby vinto dalla Lazio 3-2. Ma non tutti concorderanno. Roma-Fiorentina è stata piena di occasioni da gol, il derby ha raggiunto il massimo del pathos nel finale e la vittoria interista a Torino primeggia per il valore del successo.

Una partita divertente può risultare bella per il tifoso della squadra vincente. I romanisti sicuramente ricorderanno Roma-Inter 4-5 o Manchester Utd-Roma 7-1, ma non credo le ritengano belle.

Bello è qualcosa che piace, che ci ricorda sentimenti positivi. Per i viola la sconfitta di sabato rimane una sconfitta, e una sconfitta è dolce solo quando si traduce in passaggio del turno.

Altri hanno parlato di spot per il calcio italiano. Spesso abbiamo questa concezione negativa del nostro stivale pallonaro. Non dimentichiamoci che formazioni come la Juve e il Napoli già stanno lavorando sodo per riportare il nome delle italiane ai vertici che contano.

Lo spettacolo tra Roma-Fiorentina aiuta, ma negli altri campionati sono comunque impegnati a pensare al cortile di casa propria. Se Roma-Fiorentina è la più bella partita del nostro campionato, che figura ci facciamo noi di fronte agli spagnoli con il loro Barcellona-Deportivo 5-4 o di fronte agli inglesi con i loro Reading-Arsenal 5-7 o con il derby di domenica scorsa tra le due squadre di Manchester finito con la vittoria per 3 a 2 al novantaduesimo per lo United, grazie a un gol di Van Persie su punizione?

Il calcio del Bel Paese non ha bisogno di autocompiacimento. La strada per un futuro migliore è ancora lunga. Roma e Fiorentina sono due belle realtà che possono dare una mano al risorgimento nostrano.

Ma attenzione a confondere emozioni e risultati. Una partita bella può essere anche con pochi gol, o con un pareggio a reti inviolate. Bella tatticamente e noiosa fino alla morte.

Per i romanisti è bella la partita di domenica, per i laziali è bello il derby, per gli interisti è bella la partita contro la Juve.

La bellezza del calcio è nel gioco, nella tattica, nel sudore, nella sconfitta e nella vittoria, dipende dai punti di vista. La bellezza è in campo ogni domenica. Il gol è solo l’estasi finale. Un’estasi univoca. Per chi segna è bellezza. Per chi subisce è amarezza. Per chi è imparziale è divertimento. Bisognerebbe lasciare ad ognuno il suo bello e gli aggettivi appropriati. 

Godfrey Chitalu: l'uomo che ha rubato il record a Messi


Godfrey Chitalu e il suo record di 107 gol - Spoorts and culture

Messi ha battuto un altro record segnando 86 gol in un anno solare. Superato il precedente primato del tedesco Gert Muller.

Ma dai polverosi archivi della rete emerge una leggenda: Godfrey Chitalu. Attaccante africano che nel 1972 avrebbe segnato 107 reti.

Una storia tra la bufala e il romanticismo. La voce di Wikipedia che si riferisce a Godfrey Chitalu è stata modificata una decina di volte con statistiche surreali.

Una fantomatica pagina ufficiale dell'associazione calcistica dello Zambia sottolinea la non ufficialità del record di Godfrey Chitalu, soprannominato Ucar, dal nome di una marca di batterie. 

Social network bombardati dal passaparola dei cinguettii a 107 caratteri, soprattutto in castigliano. Calcio mediatico che gioca di contropiede. Il tifo madridista ha il suo nuovo idolo. 107 gol che schiacciano la Pulce argentina e trasformano Messi da eterno primo a sofferente secondo.

Record da fiaba, collezionato con reti mai immortalate da una telecamera. Bottino segreto di un tempo e di un luogo liberi dalla tecnologia morbosa che oggi è alla sfrenata ricerca di assist, punti fuori casa e corner casalinghi da incolonnare in tabelle avide di statistiche.

I mille colpi di tacco di Totti, i 136 passaggi riusciti di Xavi durante una sola partita, gli scudetti consecutivi di Ibra con squadre diverse. I numeri e il nostro amore per le classifiche. 

Godfrey Chitalu è altro. Portavoce di giocatori dimenticati dagli almanacchi. Capitan Passato di un esercito di diseredati. Nero marcatore di un continente abbandonato.

Quanti altri Godfrey Chitalu sono passati inosservati sul tondo mondo del calcio?

Come Friedenreich, attaccante brasiliano del primo ventennio del secolo, figlio di un tedesco e di una lavandaia nera, massimo goleador di tutti i tempi. Pelè segnò 1297 gol. Friedenreich 1329.

Storie che ricordano l'oralità di terre lontane e martoriate. Godfrey Chitalu muore in Gabon nel 1993 nella tragedia aerea che travolge tutta la nazionale di calcio dello Zambia, della quale era diventato allenatore.

Forse il record fiabesco, riemerso dai più oscuri oblii della memoria calcistica, altro non era che un tentativo di ricordare la sofferenza di una nazione e di un continente, dove le persone sono sempre più schiacciate dai numeri che contano realmente su questa terra. Quelli dell'economia.

Forse bufala della rete inviolata, la storia di Godfrey Chitalu con il suo primato, inventato o reale, riporta per una notte il calcio alla sua ancestrale magia.

I numeri intrappolano, le storie raccontano.

Messi ha conquistato il suo nuovo traguardo ufficiale, ma mai riuscirà a battere i record sconosciuti di milioni di bambini che ogni giorno giocano a pallone nelle strade, negli oratori e nei campetti.

Goleador pieni di fantasie senza statistiche, che sognano di alzare un trofeo come la Pulce o di realizzare una rete indescrivibile e misteriosa. Come un gol dei 107 di Godfrey Chitalu. Fenomeno dimenticato. Sprofondato nell'abisso dei suoi stessi grandi numeri.

giovedì 6 dicembre 2012

Finale alla portoghese


Due estati fa macinai chilometri nella penisola iberica. Dai vigneti della Rioja arrivai tra le verdi colline della Galicia, passando per le aride mesetas della Spagna centrale.

Da Santiago di Compostela sconfinai insieme alla parlata gallega verso il Portogallo, destinazione Porto. Città affascinante che già avevo visitato da cima a fondo nel 2006 nel mio viaggio iberico post-maturità. Questa volta la scusa per tornare sui miei passi era un aereo low cost che mi avrebbe riportato a casa. Sfruttai la mezza giornata portoghese in riva al fiume Douro, dove sorgono le grandi fabbriche di porto, ormai quasi tutte di proprietà inglese.

Vedendo i bambini che sognano un futuro da Cristiano Ronaldo tuffarsi dal grande ponte che unisce le due rive, spesi i miei ultimi quattro euro, sopravvissuti a trenta giorni di vacanza, comprando una birra in lattina e un panino col baccalà, pietanza tipica di queste terre. Conservando 1,45 euro per il biglietto della metro partii verso l’aeroporto.

Il trasporto cittadino non ha niente da spartire con il medioevo romano. Oltre alla fermata metropolitana per l’aeroporto, ce n'è una esclusiva per lo stadio Dragao, residenza del Futebol Clube Oporto. Squadra orgoglio della città.

Partendo dall’edificio del Se, la cattedrale, e scendendo nelle strette vie della Ribeira, che conducono fino alla riva del Douro, lo sguardo è catturato dalle atmosfere romantiche del quartiere e dalle centinaia di bandiera sui balconi delle case. Drappi rossoverdi portoghesi e biancoazzurri dell’Oporto.

Una città che vive di liquore e di calcio. Mentre aspettavo il vagone che mi avrebbe portato verso una notte insonne su una panchina dell’aeroporto, un pazzo ubriacone mi illustrò queste due passioni nazionali sintetizzandole in una scena da teatro dell’assurdo sulla banchina della metro opposta alla mia.
Con passo zigzagato e sguardo perso iniziò a urlare “Benfica é merda” “Benfica é merda” a ripetizione. La gente rideva, i poliziotti addetti al controllo sicurezza anche. Un ragazzo dal mio lato della banchina prese la palla al balzo e iniziò a chiedere ad alta voce: “Benifica claro que é merda, pero o Sporting Lisboa que é?” e l’ubriacone senza lasciare dubbi alla platea non pagante: "Merda também, o Sporting é merda!"

Iniziò così un cortometraggio di cinque minuti. Il giovane chiedeva: “O Braga?” e il profeta zuppo rispondeva “O Braga é merda”“O Bragança?”,O Bragança é merda”, “E o Setubal?” “O Setubal é merda”, “ E o Guimareis?” “ O Guimareis é merda”.

Per finire con i titoli di coda “ E Oporto que é?”; solo allora il capo popolo sulle ali dell’entusiasmo esclamò “Oporto è campeao” e iniziò a cantare “Campeao campeao”, seguito da un'ovazione dei giovani che aspettavano la metro e da un sorriso dei più anziani.
Evora -  Estate 2006 - Reperto linguistico : primi amori con l'idioma portoghese
Ritornare a Porto, anche solo per mezza giornata era stata una scelta di cuore. Il mondo di lingua portoghese aveva sempre esercitato su di me un grande fascino. La musica, nella variante brasiliana, mi aveva aperto davanti un universo, quando ancora quattordicenne scoprii gli Smoke City; un gruppo che cantava mischiando inglese e portoghese. Grazie a loro imparai la mia prima parola nella lingua lusitana: abacaxi, che significa ananas. Poi fu la volta dell'immersione sonora nella drum’n’bass brasiliana, che ancora oggi è uno dei pochi stili dell’elettronica che apprezzo. 

Con il Portogallo, in particolare, il primo contatto fu attraverso un film. Alla Rivoluzione sulla due cavalli. Storia di tre amici che partono da Parigi sulla mitica macchina Citroen e, attraversando la Spagna franchista, arrivano nel Portogallo della Rivoluzione dei garofani. Giunti pieni d’entusiasmo a Lisbona, si accodano a un gruppo di manifestanti che sventolano bandiere rosse. In realtà il corteo era composto da tifosi del Benfica diretti allo stadio.


Nell’adolescenza poi fu il momento delle letture di Tabucchi e Saramago. Degli elogi a Figo e Rui Costa. Dei cori per Fernando Couto. Io che da tifoso laziale atipico allo stadio spesso mi sentivo a disagio con molti dei cori biancocelesti. La canzone dedicata al difensore portoghese sulle note della “Famiglia Adams” era l’unica filastrocca nera che mi concedevo in curva.

Il Portogallo poi con il tempo si è allontanato dalle mie passioni. Nel calcio, dalla discesa in campo di Cristiano Ronaldo, le mie simpatie per il futbol lusitano sono crollate. Mourinho ha fatto il resto. La passione per la lingua portoghese mi si è strozzata in bocca, inerme nei confronti delle sue cugine romanze che mi hanno conquistato.

Ieri sera, dopo molto tempo, mi è tornata alla mente una parte di quell’infatuazione giovanile portoghese. Mi sono ricordato quel mantra liquoroso “Benfica è merda” guardando distrattamente la sfida di Champions League tra Barcellona e la squadra rossa di Lisbona. La partita è stata archiviata con un pareggio. La notizia più rilevante del match è stato l’infortunio di Leo Messi.

Ma al ’94 succede qualcosa che mi riporta indietro di due anni nella stazione della metro di Oporto. Sui piedi di Cardozo arriva il pallone della vita. Un minuto allo scadere. Una vittoria avrebbe regalato il passaggio del turno alla squadra di Lisbona. Il pallone della vita. Il racconto da conservare per nipoti e figli. Lo scoccare del ’95. Un finale che si potrebbe trasformare nella copia portoghese di un film hollywoodiano. Un Klose lusitano, un Aguero dell’Atlantico osannato in tutte le lingue, un Grosso in piccolo. Con tutta la letteratura che accompagna le imprese allo scadere. Una rovesciata di Pelè ad un soffio dalla Fuga per la vittoriaIl rigore parato all'ultimo infame secondo da Stallone sullo stesso campo.

Cardozo da eroe cinematografico di un film trionfante diventa la controfigura di un b-movie all’italiana. Perso in un finale trash al gusto di mortadella, come il cugino brasiliano Julio Baptista. Inciampa nella replica del peggior spaghetti western de noantri. Da postini pronti per la consegna della vita a reietti che non se devono fa più vede dalle parti di Lisbona e di Roma.


La potenza del calcio è anche questa. Lontano è il 1961 quando il Benfica riuscì a imporsi in finale di Coppa dei Campioni contro i catalani. Lontani sono i ricordi dei racconti su Eusebio. Se oggi, a sei anni di distanza da quando misi per la prima volta piede in Portogallo, mi ritrovo a parlare un buon catalano, mentre le mie conoscenze di portoghese sono ridicole, la colpa è anche degli interpreti di questo gioco.

Se fosse entrato quel pallone, poi tirato alto sopra la traversa da Maxi Pereira, forse domani avrei ripreso armi e bagagli e mi sarei rituffato con entusiasmo nella traduzione di una canzone di fado.

Ma all’ultimo secondo, capendo che gli Dei del calcio hanno scelto altre terre su cui governare, ho ripetuto in silenzio la profezia di quel pazzo visionario: “Benfica è merda!”.