giovedì 29 novembre 2012

113 anni di Barcellona


113 di Barcellona. 113 di Calcio. Da un annuncio sul giornale al tiki taka. Hans-Max Gamper è uno svizzero, capitano del Basilea. A 21 anni arriva a Barcellona e se ne innamora. Cambia il proprio nome in Joan Gamper e pubblica sul giornale “Los Deportes” una chiamata agli scarpini per chiunque voglia giocare a calcio. Rispondono in 11: destino dei numeri. Il 29 novembre 1889 fondano il Futbol Club Barcelona. Sono sei catalani, tre inglesi due svizzeri e un tedesco. Sembra una barzelletta. Diventerà leggenda.

La maglia ha gli stessi colori del Basilea di Gamper: azzurro e granata, blaugrana. L’8 dicembre di quello stesso anno il neonato Barcellona disputa la prima partita contro gli inglesi residenti in città, che vinsero per  uno a zero. 113 anni di gloriosa storia iniziati con una sconfitta. Il primo Clasico contro il Real Madrid è del 1902, semifinale di Copa del Rey, vinta dai blaugrana per 3-1.

Da quel lontano 1899 il bottino conquistato sul campo è variopinto: 21 Campionati di Liga, 26 Coppe del Re, 10 Supercoppe di Spagna, 4 Champions League ( una nel ’91 contro la Samp quando ancora si chiamava Coppa Campioni), 4 Coppe delle Coppe,  3 Coppe delle Fiere,  4 Supercoppe Uefe, 2 Mondiali per club, 2 effimere Coppe della Liga,  6 romantici Campionati di Catalunya (tra il 1905-1916) e 4 lunatiche Coppe dei Pireni (sempre tra il 1905-1916).

Trofei e record conquistati da soldati di quello che lo scrittore Montalban ha definito l’esercito senza armi della Catalogna.

Una storia di giocatori farcita di letteratura.

Paulino Alcantara, di origini filippine, debutta a 15 anni in prima squadra, si dice di lui che in una partita tra Francia e Spagna del 1922 finita 0-4 abbia spaccato la rete con un tiro di destro da fuori aerea.
Luisito Suarez, primo Pallone d’Oro del Barcellona nel 1960 e unico spagnolo ad aver vinto il prestigioso premio individuale; Di Stefano lo definiva “El Arquitecto”.
Zamora, portiere “unico”. Galeano lo dipinge così: ”Era il terrore degli attaccanti. Se lo guardavano negli occhi erano perduti: con Zamora in porta, lo specchio si rimpiccioliva e i pali si allontanavano fino a perdersi di vista. Lo chiamavano El Divino. Per vent’anni fu il miglior portiere del mondo. Gli piaceva il cognac e fumava tre pacchetti di sigarette al giorno e qualche sigaro”.
Kubala, terzo marcatore di tutti i tempi della storia del Barcellona dopo Messi e Cesar Rodriguez, il Di Stefano blaugrana; per Montalban: “Kubala ci ha insegnato a vedere il calcio come uno successione di momenti magici”; il popolare cantautore catalano Joan Manuel Serrat gli ha persino dedicato una canzone.

Samitier, raccontato ancora da Galeano:A sedici anni Samitier debuttò in prima divisione. Nel 1918 firmò con il Barcellona in cambio di un orologio col quadrante luminoso, che era una cosa mai vista, e di un vestito col panciotto (…) Samitier, attaccante dal tiro al fulmicotone, spiccava per l’astuzia, il dominio del pallone, l’assoluta mancanza di rispetto delle regole delle logica e l’olimpico disprezzo per le frontiere dello spazio e del tempo”.

Kocsis “Cabeza de Oro”, che finisce per dare nome a un criminale nel romanzo italiano “54” del collettivo italiano Wu Ming.
Il portiere Urruti e il grido di amore del telecronista Joaquim Maria Puyal, dopo un rigore parato che regala la vittoria matematica della Liga '83-'84 (Urruti t’estimo; Urruti ti amo).
Cruijff, soprannominato da Gianni Brera il Pelè biancoMaradona tra prodezze e follieGuardiola, lo slalom di Ronaldo, il reietto SchusterRivaldo e la cilena che all'ultimo minuto di un sofferto match contro il Valencia regala al Barcellona il quarto posto nella Liga e la qualificazione alla Champions League.

E poi ancora RomarioRonaldhino, l'accoglienza con buffet a base di porchetta, al Camp Nou, per il traditore FigoMessi e il suo primo contratto firmato su un fazzoletto di carta.

Partite come battaglie.

Vittorie indimenticabili: il 5-1 inflitto al Milan negli ottavi di finale di Coppa Campioni del 1959 ( tre gol di Kubala), l'uno a zero su punizione di Koeman ai tempi supplementari nella prima finale della Coppa dei Campioni vinta dal Barcellona contro la Sampdoria di Mancini e Vialli, il pareggio all'ultimo secondo di Iniesta a Stamford Bridge contro il Chelsea che regala ai blaugrana l'accesso alla finale di Champions, il 5-0 del calcio totale di Cruijff a casa del Real Madrid nel 1974, il 5-0 al Camp Nou sempre contro i rivali storici della Casa Blanca nel 1994 (questa volta con Cruijff allenatore e con un divino Romario in campo), successi storici nel Clasico, questi ultimiseguiti nell'era moderna da un 2-6 al Santiago Bernabeu e da un 5-0 al Camp Nou (la manita).

Ma anche amare sconfitte: il 3-2 a Berna nella finale di Coppa dei Campioni del '61 contro il Benfica, il 4-0 ad Atene contro un fantastico Milan di Sacchi nella finale della Coppa Campioni nel 1994, la rivincita delle merengues  al Bernabeu del 1995 che dopo averne incassati cinque la stagione precedente al Camp Nou ricambiano il regalo ( tre gol di Zamorano, uno di Luis Enrique e uno di Amavisca).

Dai tulipani al tiki taka.

Un progetto vincente che si è sviluppato; negli ultimi anni; intorno al vivaio giovanile, la cantera. Pochi giorni fa contro il Levante il Barcellona ha battuto un altro record schierando in campo 11 giocatori provenienti dal settore giovanile. Un successo di marca catalano perfezionato dale conoscenze importate dalla cultura calcistica olandese. La Masia, comprata dal club nel 1966, è trasformata in residenza per i giocatori delle giovanili solamente nel 1979. Lo zampino oranj nel decennio successivo ancora coglie i suoi frutti nelle vittorie blaugrana odierne.

Un estratto da Selvaggi e sentimentali di Javier Marias, fervente sostenitore del Real Madrid, è un simpatico esempio di come in quegli anni l’Olanda fosse di casa in Catalogna: La formazione di questo extra-club, tradizionale emblema del nazionalismo catalano recita così: Hesp (olandese), Bogarde (olandese), De Boer I (olandese), Giovanni (brasiliano), Reiziger (olandese); De Boer II (olandese), Rivaldo (brasiliano), Cocu (olandese), Zenden (olandese); Anderson (brasiliano) e Kluivert (olandese). In panchina potrebbero esserci Baia (portoghese), Pellegrino (argentino), Figo (portoghese), Amunike (nigeriano) e, se insistete, Sergi e Guardiola ( spagnoli o catalani, come preferite, non cominciate a fare storie per delle righe o delle barre, comunque rosso-gialle). Tra i titolari avremmo otto olandesi e tre brasiliani, e dei primi -la maggioranza- provenienti dallo stesso club, l’Ajax. Ci sarebbe da ricordare che da lì è venuto anche l’allenatore Van Gaal (olandese), e che il suo aiutante è Koeman (olandese). Se Cruijff fosse il presidente dell’entità forse il Barça finirebbe per giocare nella Liga dei Paesi Bassi.

Da quei semi di tulipano piantati negli anni '70 e trattati con cura nel ventennio successivo germoglierà il sistema blaugrana di calcio moderno.

Amato e odiato. Perdente e vittorioso. Romantico, spavaldo, umile, criticato e osannato. In 113 anni di storia il Barcellona è stato centro di gravità permanente della società catalana e motivo di ammirazione per appassionati di tutto il mondo. In tre parole, estrapolate dal discorso di insediamento alla presidenza di Narcis de Carreras del 1968 e immortalate sugli spalti del Camp Nou: “Més que un club”. Più di una squarda.  

giovedì 15 novembre 2012

Noi, voi e i segni della croce.


Iniziati gli sfottò dopo Lazio-Roma, noi contro voi. Ma i tifosi romanisti sono spaccati. L’esito del derby capitolino e l’ingloriosa uscita di scena di Daniele De Rossi dividono il fronte giallorosso. Le prime scissioni da tecnici da bar si erano già create rispetto alla visione calcistica dell’allenatore Zeman. Ciecamente fedeli contro detrattori disillusi da un ritorno al bel gioco che avesse portato con sé anche successi sul campo. Cittadini onorari di Zemanlandia contro “schiavi del risultato”.

Le contrapposizioni tra le varie correnti di pensiero sottolineano un fatto non scontato: nel mondo del calcio la netta divisione tra “noi” e “voi” che tanto affascina le tifoserie locali è un assioma pieno di difetti. Voi laziali siete razzisti. Voi romanisti vi lamentate troppo. Noi laziali siamo gente seria, non come voi chiacchieroni. Noi romanisti siamo più calorosi rispetto a voi laziali incoerenti.

Un gruppo eterogeneo di centinaia di migliaia di persone riassunto in un sintetico “noialtri” e “voialtri”, identificati con i colori della propria squadra, come se tifoseria, dirigenza e giocatori fossero un tutt’uno inseparabile. Mauri è implicato nel calcioscommesse? Tutti i laziali sarebbero dei furbetti. Totti prende a calcio il congiuntivo? Tutti i romanisti sarebbero degli ignoranti.

Il tifo, in realtà, è più variegato di quanto si possa credere. Estremizzando al massimo potremmo dire che in Italia l’unica realtà che riuscirebbe a permettersi questa netta presa di posizione è quella juventina. Poche sfumature di nero e bianco. I colori del pensiero degli amanti della Vecchia Signora difficilmente conoscono variazioni. Lo juventino medio, anche il più rivoluzionario, di sinistra, progressista, aperto alla riforma sociale e culturale si trasforma nel più conservatore, spietato sostenitore dello status quo, tradizionalista e becero fiancheggiatore dei poteri forti. Odia Berlusconi, Bush, il liberismo, il capitale e le multinazionali ma chiede ad alta voce il ritorno in campo di Moggi, dei guardalinee strabici e degli scudetti in bacheca.


A Roma non è così. Su entrambi i fronti calcistici le opinioni differiscono su più punti e i toni e le azioni per far valere il proprio punto di vista sono spesso molto duri. Il tifo laziale litiga sugli aspetti tecnici riguardanti Zarate, è spaccato rispetto alla figura del presidente Lotito e in passato lo era stato durante l’accoglienza nella capitale di Antonio Candreva e sulla valutazione della gestione Reja.

Sulla sponda giallorossa  del Tevere la dirigenza americana ha raccolto elogi e critiche, i giudizi su Luis Enrique navigano tra infernali condanne e rimpianti da purgatorio. La questione di Zeman è ancora più problematica perché vede scontrarsi oltre a giudizi tecnici anche fattori sentimentali.

Non che a Torino non abbiamo problemi di questa natura (il caso Del Piero ne è un esempio), ma la tifoseria juventina rimane compatta su alcuni punti chiave; vive prepotentemente la condizione di superiorità della propria squadra non accettando mai critiche esterne. Chiusi in un guscio protettivo.
Vincere aiuta. I laziali per un periodo hanno vissuto un periodo simile con Cragnotti. Criminale? Bancarottiere fraudolento? Sperperatore? Cosa importa se confeziona trofei in successione per la nostra squadra. Solo vincendo e tappandosi il naso ha senso quindi parlare di “noi” e “voi”.

Ma oggigiorno nella Capitale perdiamo e ci scanniamo. I cugini ci stanno antipatici, ma a volte le insidie si nascondono tra i nostri stessi fratelli di fede.

Il post-derby ha calmato momentaneamente le acque laziali, ma al contrario i romanisti hanno visto incrinarsi ancor di più le proprie traballanti certezze. Non bastavano gli americani, Zeman, Luis Enrique, le lamentele tecniche sulla fase difensiva, il mercato mai convincente e l’archiviato caso Totti. Ora il problema è scottante. La cortina di ferro giallorossa si sgretola. DDR è in discussione.

Dopo la sinistra espulsione del derby, i tifosi romanisti si sono spaccati nuovamente in due fazioni. Romantici: Daniele non si discute, si ama. Critici: Ha disonorato la maglia, meglio venderlo e fare soldi. Le opportunità sono finite. Entrambe però sono d’accordo su un punto: il problema di De Rossi è quello di essere troppo tifoso della maglia che veste. Un ultrà in campo.

Visione che a mio avviso andrebbe rivisitata dopo gli avvenimenti del derby. Foga, grinta, determinazione e tifo non necessariamente fanno di un giocatore un ultrà. La personalità del singolo nelle curve è messa da parte, il gruppo conta più del singolo. In caso di aiuto non si voltano le spalle ai propri compagni. Lasciare la squadra in dieci contro undici durante il derby non è colpa dell’attaccamento alla maglia ma è segno di egoismo. I romanisti condannano il gesto. In pochi comprendono le motivazioni. De Rossi si  è trasformato nel giro di pochi anni da ultrà in campo a tifoso abbonato in Monte Mario in campo.

Un giocatore che percepisce uno stipendio di 10 milioni di euro lordi a stagione (5, 5 milioni di euro netti – ma questo, ahimè, è il calcio moderno e noi tutti, chi scrive, chi tifa e chi segue il calcio, ne siamo minimamente colpevoli), che si fa il segno della croce dopo ogni azione andata a buon fine e che alla prima occasione tira fuori il peggio di sé con un pugno in faccia al capitano avversario, nella partita più importante dell’anno solare capitolino, ricorda più che un ultrà da curva, uno di quei distinti signorotti che spesso affollano la tribuna Monte Mario, senza distinzione di colore, di buona estrazione sociale, ben vestiti e pronti a baciarsi le mani a vicenda, che alla prima occasione buona inveiscono e bestemmiano per un gol mancato della propria squadra. Personaggi che finita la partita prendono il Suv e tornano ai loro sporchi affari.

Se ne saranno accorti in curva? I segni della croce lasciamoli in Vaticano. Un noi romanisti non esisterà mai, malgrado striscioni, cori e slogan. I gufi laziali gongolano. Ma il dna famigliare è lo stesso. Un noi contrapposto al voi romanista non è credibile. Troppe saranno ancora le occasioni per potersi dividere: giocatori, allenatore, presidente. Modi differenti di vivere il calcio.


Il noi e voi in terra capitolina è un feticcio. Un gioco di parole. Uno sfogo liberatorio ma irreale.

Cinque candidati non basterebbero in ipotetiche primarie giallorosse o biancocelesti per decretare un pensiero vincente. Per delineare un noi e un voi. Troppi tifosi entrerebbero nelle urne facendosi il segno della croce mentre altri uscirebbero bestemmiando contro i loro compagni. A Torino, al contrario, il candidato sarebbe sempre uno solo, con un motto di partito preso a prestito dal marchese De Rossi : “Mi dispiace ma noi siamo noi e voi non siete un cazzo!”.