giovedì 15 novembre 2012

Noi, voi e i segni della croce.


Iniziati gli sfottò dopo Lazio-Roma, noi contro voi. Ma i tifosi romanisti sono spaccati. L’esito del derby capitolino e l’ingloriosa uscita di scena di Daniele De Rossi dividono il fronte giallorosso. Le prime scissioni da tecnici da bar si erano già create rispetto alla visione calcistica dell’allenatore Zeman. Ciecamente fedeli contro detrattori disillusi da un ritorno al bel gioco che avesse portato con sé anche successi sul campo. Cittadini onorari di Zemanlandia contro “schiavi del risultato”.

Le contrapposizioni tra le varie correnti di pensiero sottolineano un fatto non scontato: nel mondo del calcio la netta divisione tra “noi” e “voi” che tanto affascina le tifoserie locali è un assioma pieno di difetti. Voi laziali siete razzisti. Voi romanisti vi lamentate troppo. Noi laziali siamo gente seria, non come voi chiacchieroni. Noi romanisti siamo più calorosi rispetto a voi laziali incoerenti.

Un gruppo eterogeneo di centinaia di migliaia di persone riassunto in un sintetico “noialtri” e “voialtri”, identificati con i colori della propria squadra, come se tifoseria, dirigenza e giocatori fossero un tutt’uno inseparabile. Mauri è implicato nel calcioscommesse? Tutti i laziali sarebbero dei furbetti. Totti prende a calcio il congiuntivo? Tutti i romanisti sarebbero degli ignoranti.

Il tifo, in realtà, è più variegato di quanto si possa credere. Estremizzando al massimo potremmo dire che in Italia l’unica realtà che riuscirebbe a permettersi questa netta presa di posizione è quella juventina. Poche sfumature di nero e bianco. I colori del pensiero degli amanti della Vecchia Signora difficilmente conoscono variazioni. Lo juventino medio, anche il più rivoluzionario, di sinistra, progressista, aperto alla riforma sociale e culturale si trasforma nel più conservatore, spietato sostenitore dello status quo, tradizionalista e becero fiancheggiatore dei poteri forti. Odia Berlusconi, Bush, il liberismo, il capitale e le multinazionali ma chiede ad alta voce il ritorno in campo di Moggi, dei guardalinee strabici e degli scudetti in bacheca.


A Roma non è così. Su entrambi i fronti calcistici le opinioni differiscono su più punti e i toni e le azioni per far valere il proprio punto di vista sono spesso molto duri. Il tifo laziale litiga sugli aspetti tecnici riguardanti Zarate, è spaccato rispetto alla figura del presidente Lotito e in passato lo era stato durante l’accoglienza nella capitale di Antonio Candreva e sulla valutazione della gestione Reja.

Sulla sponda giallorossa  del Tevere la dirigenza americana ha raccolto elogi e critiche, i giudizi su Luis Enrique navigano tra infernali condanne e rimpianti da purgatorio. La questione di Zeman è ancora più problematica perché vede scontrarsi oltre a giudizi tecnici anche fattori sentimentali.

Non che a Torino non abbiamo problemi di questa natura (il caso Del Piero ne è un esempio), ma la tifoseria juventina rimane compatta su alcuni punti chiave; vive prepotentemente la condizione di superiorità della propria squadra non accettando mai critiche esterne. Chiusi in un guscio protettivo.
Vincere aiuta. I laziali per un periodo hanno vissuto un periodo simile con Cragnotti. Criminale? Bancarottiere fraudolento? Sperperatore? Cosa importa se confeziona trofei in successione per la nostra squadra. Solo vincendo e tappandosi il naso ha senso quindi parlare di “noi” e “voi”.

Ma oggigiorno nella Capitale perdiamo e ci scanniamo. I cugini ci stanno antipatici, ma a volte le insidie si nascondono tra i nostri stessi fratelli di fede.

Il post-derby ha calmato momentaneamente le acque laziali, ma al contrario i romanisti hanno visto incrinarsi ancor di più le proprie traballanti certezze. Non bastavano gli americani, Zeman, Luis Enrique, le lamentele tecniche sulla fase difensiva, il mercato mai convincente e l’archiviato caso Totti. Ora il problema è scottante. La cortina di ferro giallorossa si sgretola. DDR è in discussione.

Dopo la sinistra espulsione del derby, i tifosi romanisti si sono spaccati nuovamente in due fazioni. Romantici: Daniele non si discute, si ama. Critici: Ha disonorato la maglia, meglio venderlo e fare soldi. Le opportunità sono finite. Entrambe però sono d’accordo su un punto: il problema di De Rossi è quello di essere troppo tifoso della maglia che veste. Un ultrà in campo.

Visione che a mio avviso andrebbe rivisitata dopo gli avvenimenti del derby. Foga, grinta, determinazione e tifo non necessariamente fanno di un giocatore un ultrà. La personalità del singolo nelle curve è messa da parte, il gruppo conta più del singolo. In caso di aiuto non si voltano le spalle ai propri compagni. Lasciare la squadra in dieci contro undici durante il derby non è colpa dell’attaccamento alla maglia ma è segno di egoismo. I romanisti condannano il gesto. In pochi comprendono le motivazioni. De Rossi si  è trasformato nel giro di pochi anni da ultrà in campo a tifoso abbonato in Monte Mario in campo.

Un giocatore che percepisce uno stipendio di 10 milioni di euro lordi a stagione (5, 5 milioni di euro netti – ma questo, ahimè, è il calcio moderno e noi tutti, chi scrive, chi tifa e chi segue il calcio, ne siamo minimamente colpevoli), che si fa il segno della croce dopo ogni azione andata a buon fine e che alla prima occasione tira fuori il peggio di sé con un pugno in faccia al capitano avversario, nella partita più importante dell’anno solare capitolino, ricorda più che un ultrà da curva, uno di quei distinti signorotti che spesso affollano la tribuna Monte Mario, senza distinzione di colore, di buona estrazione sociale, ben vestiti e pronti a baciarsi le mani a vicenda, che alla prima occasione buona inveiscono e bestemmiano per un gol mancato della propria squadra. Personaggi che finita la partita prendono il Suv e tornano ai loro sporchi affari.

Se ne saranno accorti in curva? I segni della croce lasciamoli in Vaticano. Un noi romanisti non esisterà mai, malgrado striscioni, cori e slogan. I gufi laziali gongolano. Ma il dna famigliare è lo stesso. Un noi contrapposto al voi romanista non è credibile. Troppe saranno ancora le occasioni per potersi dividere: giocatori, allenatore, presidente. Modi differenti di vivere il calcio.


Il noi e voi in terra capitolina è un feticcio. Un gioco di parole. Uno sfogo liberatorio ma irreale.

Cinque candidati non basterebbero in ipotetiche primarie giallorosse o biancocelesti per decretare un pensiero vincente. Per delineare un noi e un voi. Troppi tifosi entrerebbero nelle urne facendosi il segno della croce mentre altri uscirebbero bestemmiando contro i loro compagni. A Torino, al contrario, il candidato sarebbe sempre uno solo, con un motto di partito preso a prestito dal marchese De Rossi : “Mi dispiace ma noi siamo noi e voi non siete un cazzo!”. 

Nessun commento:

Posta un commento