giovedì 6 dicembre 2012

Finale alla portoghese


Due estati fa macinai chilometri nella penisola iberica. Dai vigneti della Rioja arrivai tra le verdi colline della Galicia, passando per le aride mesetas della Spagna centrale.

Da Santiago di Compostela sconfinai insieme alla parlata gallega verso il Portogallo, destinazione Porto. Città affascinante che già avevo visitato da cima a fondo nel 2006 nel mio viaggio iberico post-maturità. Questa volta la scusa per tornare sui miei passi era un aereo low cost che mi avrebbe riportato a casa. Sfruttai la mezza giornata portoghese in riva al fiume Douro, dove sorgono le grandi fabbriche di porto, ormai quasi tutte di proprietà inglese.

Vedendo i bambini che sognano un futuro da Cristiano Ronaldo tuffarsi dal grande ponte che unisce le due rive, spesi i miei ultimi quattro euro, sopravvissuti a trenta giorni di vacanza, comprando una birra in lattina e un panino col baccalà, pietanza tipica di queste terre. Conservando 1,45 euro per il biglietto della metro partii verso l’aeroporto.

Il trasporto cittadino non ha niente da spartire con il medioevo romano. Oltre alla fermata metropolitana per l’aeroporto, ce n'è una esclusiva per lo stadio Dragao, residenza del Futebol Clube Oporto. Squadra orgoglio della città.

Partendo dall’edificio del Se, la cattedrale, e scendendo nelle strette vie della Ribeira, che conducono fino alla riva del Douro, lo sguardo è catturato dalle atmosfere romantiche del quartiere e dalle centinaia di bandiera sui balconi delle case. Drappi rossoverdi portoghesi e biancoazzurri dell’Oporto.

Una città che vive di liquore e di calcio. Mentre aspettavo il vagone che mi avrebbe portato verso una notte insonne su una panchina dell’aeroporto, un pazzo ubriacone mi illustrò queste due passioni nazionali sintetizzandole in una scena da teatro dell’assurdo sulla banchina della metro opposta alla mia.
Con passo zigzagato e sguardo perso iniziò a urlare “Benfica é merda” “Benfica é merda” a ripetizione. La gente rideva, i poliziotti addetti al controllo sicurezza anche. Un ragazzo dal mio lato della banchina prese la palla al balzo e iniziò a chiedere ad alta voce: “Benifica claro que é merda, pero o Sporting Lisboa que é?” e l’ubriacone senza lasciare dubbi alla platea non pagante: "Merda também, o Sporting é merda!"

Iniziò così un cortometraggio di cinque minuti. Il giovane chiedeva: “O Braga?” e il profeta zuppo rispondeva “O Braga é merda”“O Bragança?”,O Bragança é merda”, “E o Setubal?” “O Setubal é merda”, “ E o Guimareis?” “ O Guimareis é merda”.

Per finire con i titoli di coda “ E Oporto que é?”; solo allora il capo popolo sulle ali dell’entusiasmo esclamò “Oporto è campeao” e iniziò a cantare “Campeao campeao”, seguito da un'ovazione dei giovani che aspettavano la metro e da un sorriso dei più anziani.
Evora -  Estate 2006 - Reperto linguistico : primi amori con l'idioma portoghese
Ritornare a Porto, anche solo per mezza giornata era stata una scelta di cuore. Il mondo di lingua portoghese aveva sempre esercitato su di me un grande fascino. La musica, nella variante brasiliana, mi aveva aperto davanti un universo, quando ancora quattordicenne scoprii gli Smoke City; un gruppo che cantava mischiando inglese e portoghese. Grazie a loro imparai la mia prima parola nella lingua lusitana: abacaxi, che significa ananas. Poi fu la volta dell'immersione sonora nella drum’n’bass brasiliana, che ancora oggi è uno dei pochi stili dell’elettronica che apprezzo. 

Con il Portogallo, in particolare, il primo contatto fu attraverso un film. Alla Rivoluzione sulla due cavalli. Storia di tre amici che partono da Parigi sulla mitica macchina Citroen e, attraversando la Spagna franchista, arrivano nel Portogallo della Rivoluzione dei garofani. Giunti pieni d’entusiasmo a Lisbona, si accodano a un gruppo di manifestanti che sventolano bandiere rosse. In realtà il corteo era composto da tifosi del Benfica diretti allo stadio.


Nell’adolescenza poi fu il momento delle letture di Tabucchi e Saramago. Degli elogi a Figo e Rui Costa. Dei cori per Fernando Couto. Io che da tifoso laziale atipico allo stadio spesso mi sentivo a disagio con molti dei cori biancocelesti. La canzone dedicata al difensore portoghese sulle note della “Famiglia Adams” era l’unica filastrocca nera che mi concedevo in curva.

Il Portogallo poi con il tempo si è allontanato dalle mie passioni. Nel calcio, dalla discesa in campo di Cristiano Ronaldo, le mie simpatie per il futbol lusitano sono crollate. Mourinho ha fatto il resto. La passione per la lingua portoghese mi si è strozzata in bocca, inerme nei confronti delle sue cugine romanze che mi hanno conquistato.

Ieri sera, dopo molto tempo, mi è tornata alla mente una parte di quell’infatuazione giovanile portoghese. Mi sono ricordato quel mantra liquoroso “Benfica è merda” guardando distrattamente la sfida di Champions League tra Barcellona e la squadra rossa di Lisbona. La partita è stata archiviata con un pareggio. La notizia più rilevante del match è stato l’infortunio di Leo Messi.

Ma al ’94 succede qualcosa che mi riporta indietro di due anni nella stazione della metro di Oporto. Sui piedi di Cardozo arriva il pallone della vita. Un minuto allo scadere. Una vittoria avrebbe regalato il passaggio del turno alla squadra di Lisbona. Il pallone della vita. Il racconto da conservare per nipoti e figli. Lo scoccare del ’95. Un finale che si potrebbe trasformare nella copia portoghese di un film hollywoodiano. Un Klose lusitano, un Aguero dell’Atlantico osannato in tutte le lingue, un Grosso in piccolo. Con tutta la letteratura che accompagna le imprese allo scadere. Una rovesciata di Pelè ad un soffio dalla Fuga per la vittoriaIl rigore parato all'ultimo infame secondo da Stallone sullo stesso campo.

Cardozo da eroe cinematografico di un film trionfante diventa la controfigura di un b-movie all’italiana. Perso in un finale trash al gusto di mortadella, come il cugino brasiliano Julio Baptista. Inciampa nella replica del peggior spaghetti western de noantri. Da postini pronti per la consegna della vita a reietti che non se devono fa più vede dalle parti di Lisbona e di Roma.


La potenza del calcio è anche questa. Lontano è il 1961 quando il Benfica riuscì a imporsi in finale di Coppa dei Campioni contro i catalani. Lontani sono i ricordi dei racconti su Eusebio. Se oggi, a sei anni di distanza da quando misi per la prima volta piede in Portogallo, mi ritrovo a parlare un buon catalano, mentre le mie conoscenze di portoghese sono ridicole, la colpa è anche degli interpreti di questo gioco.

Se fosse entrato quel pallone, poi tirato alto sopra la traversa da Maxi Pereira, forse domani avrei ripreso armi e bagagli e mi sarei rituffato con entusiasmo nella traduzione di una canzone di fado.

Ma all’ultimo secondo, capendo che gli Dei del calcio hanno scelto altre terre su cui governare, ho ripetuto in silenzio la profezia di quel pazzo visionario: “Benfica è merda!”.

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