Autore di questo articolo è Francesco Leone: storico, chitarrista, gran bevitore di birra ed amante del bel calcio, soprattutto passato. Le sue origini sono per un terzo italiane, per un terzo tedesche e per un terzo trapattoniane.
E’ il maggio 1990 e la Jugoslavia è
sull’orlo del collasso: Josip Broz, detto Tito, morto nel 1980 dopo un
governo di 35 anni, non aveva lasciato eredi politici capaci di fronteggiare le
divisioni etniche, linguistiche e culturali presenti tra le nazioni della
Federazione. In Croazia l’Unione Democratica Croata, partito nazionalista e
conservatore dell’ex ufficiale jugoslavo Franjo Tuđman, ottiene la maggioranza
nelle prime libere elezioni. A pochi giorni dal secondo turno elettorale, il 13
maggio, la Dinamo Zagabria affronta in
casa, al Maksimir, la Stella Rossa Belgrado.
La
scena delle tifoserie jugoslave è animata da divisioni trasversali: alle
normali rivalità cittadine, come tra Stella Rossa e Partizan a Belgrado, o
nazionali, come tra Dinamo Zagabria e Hajduk Spalato in Croazia, si affiancano
quelle inter-nazionali.
La
partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado simboleggia la rivalità tra
l’elemento serbo e quello croato in Jugoslavia, una rivalità talmente densa da
oscurare il calcio giocato, nonostante la qualità degli interpreti: nella
Stella Rossa militano Dejan Savicevic,
futuro Genio milanista, Darko Pancev,
futuro bidone interista, e Robert Prosinecki, proveniente dalla Dinamo
Zagabria, nomade del calcio che avrebbe militato anche con Real Madrid e
Barcellona. Capitano della Dinamo è Zvonimir
Boban, 22 anni, icona insieme a Savicevic del Milan stellare di Sacchi.
L'arbitro
neanche fischia l'inizio: gli scontri fra le tifoserie, accuratamente
pianificati sia dai Delije, gruppo ultras della Stella Rossa, che dai Bad Blue
Boys, tifosi della Dinamo Zagabria, prendono immediatamente il sopravvento.
A
frapporsi fra i gruppi solo i deboli reparti della polizia federale jugoslava,
che riesce solamente a peggiorare la situazione, rappresentando per i tifosi
croati il braccio violento del centralismo serbo. È proprio un poliziotto a
diventare uno dei protagonisti involontari della giornata: uscirà dal Maksimir
con una mascella fratturata da una ginocchiata volante di Zvonimir Boban, uno
dei pochi coraggiosi a non fuggire negli spogliatoi.
Gli
scontri in campo continueranno per più di un’ora; nella città ancora più a
lungo. Non ci scappa il morto, ma si conteranno quasi 150 feriti, 80 solo tra i
poliziotti.
Secondo molti giornalisti gli
scontri del Maksimir furono la miccia della polveriera balcanica, la proverbiale
goccia di troppo. Come il famoso assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando
d’Austria a Sarajevo nel 1914, che le professoresse delle scuole medie di tutta
Italia continuano a definire come “la causa, ma non proprio la causa” della
prima guerra mondiale, gettando nella confusione generazioni di tredicenni.
La guerra civile in Jugoslavia esplode
l’anno successivo.
Molti
tifosi della Stella Rossa, della Dinamo, del Partizan Belgrado e dell’Hajduk
Spalato entrano a far parte delle milizie irregolari degli eserciti
combattenti.
L’esempio
più lampante della connessione tra tifo violento e guerra civile è la vicenda di Željko Ražnatović, detto Arkan,
famoso in Italia per essere stato ricordato in uno striscione degli
Irriducibili in un momento di evidente confusione politico-ideologica.
Arkan,
formalmente responsabile della sicurezza della Stella Rossa, sostanzialmente
capo ultrà, diventa uno dei signori della guerra jugoslavi e fonda il corpo
paramilitare “Le Tigri”, nel quale militano molti tifosi della Stella Rossa,
passati da spranghe e pietre a fucili e bombe a mano.
Arkan
sarà uno dei maggiori ricercati dall’Interpol negli anni ’80-’90, per crimini e
omicidi commessi in numerosi paesi europei, e verrà successivamente incriminato
dall’ONU per crimini contro l’umanità, genocidio e pulizia etnica.
La
guerra civile finisce nel 1995, ma gli strascichi arriveranno fino al 2008,
quando il Kosovo si dichiara indipendente dalla Serbia. In mezzo, crimini di
guerra da ogni parte, interventi umanitari, occidentali e non, tagliagole e
trafficanti diventati simboli di resistenza nazionale o capi di stato. Il
risultato è la frammentazione della Federazione in sette Stati più o meno
indipendenti (Serbia,
Montenegro, Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Kosovo), ma la
stabilità ancora oggi è lontana.
La
partita del '90 simboleggia la fine del calcio jugoslavo.
Nei
due anni successivi, molti calciatori migrano all’estero.
Oltre
a Savicevic, Pancev, Prosinecki e Boban, Alen Bokšić passa al Cannes, Sinisa
Mihajlovic alla Roma e Vladimir Jugovic alla Samp. Nonostante tutto nel maggio
del '91 la Stella Rossa Belgrado vince la Coppa dei Campioni, battendo nella
finale di Bari l’Olympique Marsiglia di Jean-Pierre Papin.
La
nazionale jugoslava, che durante la guerra fredda aveva collezionato risultati
discreti (due secondi posti nel Campionato europeo, tre argenti e un oro alle
Olimpiadi) viene sciolta nel 1992. Da allora, il miglior risultato
internazionale di una nazionale ex-jugoslava è il terzo posto della Croazia di
Boban e Davor Suker ai Mondiali del '98.
Ironia
della sorte, quell’anno la squadra croata, figlia del nazionalismo etnico,
viene battuta dalla Francia di Youri Djorkaeff, Zinedine Zidane e Lilian
Thuram. E’ proprio Thuram, simbolo di quella squadra multietnica e ambasciatore
dell’antirazzismo nel calcio, a segnare i due gol che permisero alla Francia di
battere in semifinale la Croazia…ma questa è un'altra storia.
Ascolto consigliato: Goran Bregovic, “Kalashnikov”.
Autore: Francesco Leone
Consigli, piccole aggiunte, incursioni sintattiche ed entrate a gamba tesa: Andrea Crescenzi, Giulio Ciavarella, Emiliano Pizzicannella.
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